venerdì 20 aprile 2012

Pulin and the Little Mice e la macchina del tempo









È un viaggio a ritroso nel tempo quello che i Pulin and the Little Mice fanno vivere agli spettatori durante i loro concerti. Il gruppo savonese, sulle scene da alcuni anni, propone un itinerario musicale che va alla riscoperta delle radici della tradizione americana. Musica con pochi fronzoli, genuina, ruspante, a tratti ruvida ma capace di risvegliare ritmi assopiti e far battere mani e piedi. I Pulin and the Little Mice la portano in giro nei locali e nelle piazze di tutto il nord Italia dove riescono a conquistare il pubblico con la loro spontaneità e bravura. Brani come "Digging my potatoes", il traditional "Going down the road feelin' bad", la popolare "Iko Iko", "Fishin' Blues" "Willie the Weeper" sono più che mai apprezzati e si potranno ascoltare mercoledì 25 aprile al Priamar di Savona, in occasione della rassegna che vedrà sul palco anche I Venus, A Brigà, Cisco e il coro dialettale I Pertinace.
I Pulin and the Little Mice - nella foto da sinistra Giorgio "The Captain" Profetto (chitarra acustica, kazoo, marranzano, tin whistle e voce), Marco "Poldo" Poggio (washboard, cardboard box, spoons, mandolino, rullante, voce), Marco "Figeu" Crea (chitarra acustica, cajun accordeon e voce), Matteo "Pulin" Profetto (armonica, ukulele, kazoo, frattoir e voce) - in questa intervista ci parlano del gruppo e dei loro progetti futuri. 


Iniziamo dal nome del vostro gruppo. Da dove nasce "Pulin and the little Mice"?

Matteo Profetto: «Bè, in realtà non so bene come sia uscito questo nome, è spuntato e basta in un giorno come un altro. Ci è piaciuto subito. Teniamo molto al fatto che nel nome siano accostate parole inglesi ad una parola in dialetto ligure: pulin. A proposito, pulin si legge con l'accento sulla 'i', te lo dico perché oramai lo hanno storpiato in tutti i modi possibili immaginabili. Tra l'altro nel nome, come diceva Jimmy Rabbitte dei Commitments, c'è l'articolo come per i migliori gruppi degli anni '60!». 

Siete insieme ormai da un po' di anni, perché avete deciso di farlo? Quando si sono unite le vostre strade?

Marco Poggio: «Allora, vediamo…. Era una notte buia e tempestosa…. ok, ok, citazioni snoopiane a parte possiamo dire che, visto le varie vicissitudini che hanno caratterizzato la vita del gruppo, è stato sicuramente il destino a metterci lo zampino. Da una comune passione musicale, che ha portato alla nascita del gruppo, è nata una profonda e bella amicizia; ed è anche per questo che ogni volta che ci esibiamo dal vivo siamo noi i primi a divertici come dei matti».

Il nome della vostra band appare sempre più spesso sui cartelloni dei festival di tutto il nord Italia. Vi state facendo conoscere da un pubblico molto ampio. Per voi cosa rappresenta tutto ciò? 

Marco Crea: «È la conferma che quello che facciamo, oltre che far divertire noi stessi, ha anche un qualche valore artistico ma soprattutto è uno stimolo a proporci sempre più lontani da casa, perché da buoni sportivi sappiamo che mettere chilometri nelle gambe fa sempre bene!».

Esibirsi ogni sera di fronte ad un pubblico differente, nuovo, con un diverso background culturale e musicale, cosa vi trasmette? 

Marco Crea: «Nella maggior parte delle occasioni ci troviamo davanti ad un pubblico che non ha mai ascoltato i generi musicali che proponiamo. La piacevole sorpresa sta nel fatto che le persone in ogni concerto ritrovino nella nostra musica uno stimolo per poi approfondirla, un qualcosa di perduto ma in fondo familiare o una semplice bella serata da ricordare. In ogni caso proporre qualcosa di particolare aiuta sempre l'artista a lasciare un piccolo segno nel background dello spettatore, in questo noi partiamo avvantaggiati».

Ci sono città o realtà che vi hanno accolto con più calore? 

Matteo Profetto: «Sai, non è che facciamo tour mondiali, spesso suoniamo in locali piccoli, a volte in situazioni davvero strane, e devo dire che a volte proprio dove non te lo aspetti, hai la sorpresa di un pubblico 'carico' che ti segue alla grande. Se proprio devo dirti un concerto che ultimamente ci ha davvero riempito di orgoglio, dico quello al Milestone di Piacenza, che è un noto locale jazz in cui hanno suonato un sacco di grandi e che ci ha accolti benissimo. Però, sul serio, abbiamo un sacco di bei ricordi in tante città dell'Emilia Romagna, del Piemonte e anche della nostra Liguria».

La vostra musica non potrà mai portarvi sul grande schermo, lo sapete vero? 

Giorgio Profetto: «Non ci avevamo mai pensato, ma suonando in giro abbiamo conosciuto tanti e tali personaggi che non è da escludere che incontriamo prima o poi un regista o un produttore tanto pazzo da farci una proposta, chissà?». 

Nel 2000 è uscito nelle sale cinematografiche il film "O Brother, Where Art Tou?" dei fratelli Coen con una colonna sonora fantastica che ha influenzato moltissime band e che ha fatto nascere un importante movimento musicale di recupero della tradizione. Fate parte anche voi di questa ondata?

Giorgio Profetto: «Ascoltavamo ed amavamo questa musica da molto prima del 2000, quindi abbiamo ritrovato con grande piacere nei suoni e nelle atmosfere del film una parte delle nostre radici musicali e culturali (senza contare che il soggetto è ispirato all'Odissea…più radici di così…)». 

Carolina Chocolate Drops, Old Crow Medicine Show, The Low Anthem, Hackensaw Boys. Sono solo alcuni dei gruppi che fanno parte di questo movimento di recupero della tradizione americana. In Italia si assiste ad un movimento culturale anche solo minimamente paragonabile?

Matteo Profetto: «Certo per loro il recupero della tradizione, oltre ad essere probabilmente più semplice e normale perché si tratta della loro storia musicale e sociale, è accolto in maniera davvero incredibile. Ogni tanto vedendo i video mi sembra impossibile che ai concerti di ragazzi che interpretano vecchie canzoni alla vecchia maniera ci siano folle oceaniche che cantano impazzite come ai concerti rock. Devo dirti, però, che noi incontriamo molto spesso persone che battono le mani, cantano, ballano. Credo che questo sia dovuto al fatto che i brani che eseguiamo in concerto facciano in qualche modo parte anche della nostra cultura musicale, d'altronde il rock che tanto ha influenzato la nostra musica non è altro che il pronipote della musica che noi proponiamo. Ci piace pensare che queste musiche siano dentro tutti noi e che ci siano arrivate senza che noi ce ne fossimo nemmeno accorti. Quindi la nostra ambizione, come Pulin and the Little Mice, è quella di tirarle fuori dai meandri della memoria e magari spiegare anche da dove arrivano. In realtà cerchiamo di inserire davvero tante cose all'interno dei concerti proprio perché la musica americana risente di un sacco di influenze diverse ed è cresciuta nel tempo dando origine a una serie, per utilizzare un termine che spesso si rivela opinabile, di generi e sottogeneri. Quindi è abbastanza usuale per noi inserire nelle scalette dei concerti brani irlandesi, blues, bluegrass, ragtime, zydeco e molto altro, proprio perché riteniamo che siano da vedere come genitori, nonni e zii di tanti figli e nipoti, più o meno somiglianti fra loro. Comunque con un po' di impegno non è poi così difficile trovare anche qui da noi gruppi eccellenti che fanno musica tradizionale americana molto ma molto bene. Il discorso si farebbe lungo, però credo di risponderti in maniera esauriente consigliandoti un disco dei Red Wine Serenaders di Veronica Sbergia e Max De Bernardi. Prova e mi dirai».

Li ho visti recentemente a Il Cancello del Cinabro a Genova e penso che siano veramente molto bravi. Il loro ultimo disco è notevole. Parlando invece della tradizione italiana, in questi mesi alcuni cantautori hanno dato alle stampe progetti legati in qualche modo alla tradizione. Vi faccio due esempi: Massimo Bubola con l'EP "Romagna Nostra" e Graziano Romani insieme a Lassociazione con il disco "Aforismi da Castagneto". Cosa ne pensate?

Marco Poggio: «La tradizione musicale italiana, forse perché non avvolta da un'aura mitologica caratterizzante invece quella americana, è troppo spesso materia di difficile fruizione da parte della maggior parte degli stessi italiani, ma non per questo di valore storico e musicale minore, tutt'altro. Se infatti gli Stati Uniti hanno potuto contare su un grande lavoro di ricerca etnomusicologica anche l'Italia non è stata sicuramente da meno, basta solamente guardare per esempio quanto fatto dall'immenso Diego Carpitella o da Roberto Leydi. Se a questo aggiungiamo che Alan Lomax, uno dei più grandi etnomusicologi mai esistiti, ha raccontato in uno stupendo libro fotografico i suoi viaggi di ricerca sonora in Italia, definendo quei giorni come tra i più belli ed entusiasmanti della sua vita, possiamo capire come anche il suolo italiano sia intriso di canti e melodie che vanno a comporre un vasto e prezioso patrimonio sonoro, il quale dovrebbe tuttavia essere ulteriormente e meglio valorizzato. Ben vengano quindi dischi come quelli di Romani e Bubola, in grado di far apprezzare alle nuove generazioni e ad un ampio pubblico canzoni che altrimenti sarebbero fruibili solo da appassionati incalliti o da pochi studiosi». 

In occasione della festa del 25 Aprile a Savona è in programma una bella giornata di musica. Al Priamar suonerete voi, I Venus, gli A Brigà e Cisco. Secondo voi la celebrazione del 25 Aprile è ancora attuale?

Giorgio Profetto: «Al di là della retorica e delle cerimonie, è attuale ricordare che ci furono dittature, guerre, milioni di esseri umani perseguitati e sterminati, e che tanti ragazzi - questo è quello che erano - contribuirono, spesso a costo della vita, a fermare queste cose. Forse molti di loro non si rendevano nemmeno conto dell'importanza che avrebbero avuto per noi, e forse non sarebbero sempre contenti dell'uso che facciamo della nostra libertà, ma proprio per questo non dobbiamo dimenticare».

Avete accumulato molte date live in questi anni, presumo anche idee. State pensando di incidere un disco?

Matteo Profetto: «Quella del disco è una cosa di cui abbiamo parlato un sacco di volte e che, devo dire con molto piacere, ci è stata suggerita spesso dal pubblico alla fine dei concerti. Abbiamo da poco preso il coraggio di buttarci nella registrazione di un disco, ma per noi è un'esperienza totalmente nuova, quindi temo che le cose andranno per le lunghe».

Per una band emergente quali sono i problemi che si devono affrontare per poter suonare dal vivo?

Marco Crea: «Purtroppo fare musica dal vivo diventa sempre più difficile. Per i locali rappresenta una vera e propria sfida a livello economico, a causa delle leggi che difficilmente nel nostro paese valorizzano l'arte musicale. Unito a ciò c'è l'incapacità di molti gestori che non sono in grado di proporre un programma stuzzicante per il pubblico e quindi economicamente valido per lo stesso locale. Questo deriva dall'ignoranza musicale dell'italiano medio. In ogni caso ci sono ancora diversi gestori coraggiosi che hanno scelto, come e più di noi musicisti, di rischiare per amore della musica stessa».

Quali dischi state ascoltando in questo periodo? 

Matteo Profetto: «Ultimamente sto ascoltando un sacco di musica irlandese, ma vado a periodi e credo che prossimamente mi impallerò con gli armonicisti prebellici. Per quanto riguarda le novità che vale la pena ascoltare chiedo a 'Poldo' e lui mi rifornisce».
Marco Crea: «Ultimamente molto John Doyle e Doc Watson, ma anche per me è solo un periodo. Una costante degli ultimi anni che suggerisco perchè non molto famosi sono i Subdudes». 
Giorgio Profetto: «"Sunny side up" di Paolo Nutini». 
Marco Poggio: «In questi giorni sto letteralmente consumando l'ultimo disco di Dr John, "Locked down"». 

Il vostro ultimo concerto da spettatori quale è stato? 

Matteo Profetto: «L'ultimissimo è stato quello dei Dirt Daubers a La Spezia». 
Marco Crea: «Guitar Ray and the Gamblers». 
Giorgio Profetto: «James Taylor al Teatro Carlo Felice di Genova». 
Marco Poggio: «I Wilco all'Alcatraz di Milano».







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