lunedì 24 settembre 2012

La rivoluzione del compagno Marino Severini






Quando si parla con Marino Severini il tempo scorre veloce. Prima di un concerto o a fine serata non ha importanza, il cantante e chitarrista dei Gang è pronto ad ascoltare le storie raccontate dal suo pubblico, a discutere e spiegare le sue idee. Musica, politica, ambiente e cultura sono tutti argomenti dei quali il leader della band marchigiana sa il fatto suo e non ha remore a dire quello che pensa. Abbiamo parlato di tutto ciò ma anche del futuro della band dei fratelli Severini in questa intervista raccolta tra un concerto e l'altro durante questa lunga estate che ha visto i Gang protagonisti di due belle esibizioni a Savona e Quiliano. Il 2013 regalerà forse ai fans un nuovo atteso album di canzoni inedite che manca ormai da parecchi anni.




Marino, a Savona i Gang sono ormai di casa. Quest'estate avete suonato alla Festa di Liberazione a Savona e a Quiliano, in località Colla del Termine, insieme a Massimo Priviero e Daniele Biacchessi nello spettacolo "Storie dell'altra Italia". Che ricordi ti sei portato a casa da questo doppio evento?

«Sono stati due appuntamenti o meglio due incontri molto belli. Mi hanno trasmesso grande energia e ho portato a casa un altrettanto grande sorriso! Savona da ormai quattro anni ospita i concerti più belli dei Gang. È un approdo, uno scalo, una stazione, un'oasi a cui ci fa sempre piacere tornare e fermarci a cantare. E un bel concerto non lo facciamo certamente noi da soli, la differenza la fa il pubblico. La festa di Rifondazione a Savona riesce a richiamare la parte migliore della Liguria. Di questa possibilità che ci viene data devo ringraziare i compagni ma soprattutto i più giovani di Rifondazione Comunista. È un incontro con la comunità che vive di grazia e dignità al tempo dell'ingiustizia. E fa della propria dignità la propria arma di riscatto, la propria invincibile appartenenza, la propria libertà. Quella ligure è una terra che amo per molti motivi e che nel tempo trovano sempre più conferme».

Una terra e una comunità che non avete esitato a cantare.

«Sì, abbiamo avuto l'onore di cantare con questa comunità una storia come quella di Edo Parodi e di partecipare a momenti in cui questa storia è stata tenuta in vita anche attraverso una canzone e un video che vi invito a guardare. Tutto ciò mi onora non poco e restituisce al mio lavoro, che è quello di scrivere canzoni, un senso di utilità e di funzione ma anche di organicità, direbbe Gramsci... e capisco perché da questa cultura e da questo ambito culturale sia nato uno dei più grandi scrittori italiani come Maggiani, che da tanta bellezza ha sempre tratto ispirazione e nutrimento spirituale. Quello alla festa di Rifondazione a Savona è per me l'incontro con la Liguria che amo di più, che mi fa sentire a casa. Di più non ho mai chiesto a questo mio migrare».

Parliamo invece del bel pomeriggio passato sulle alture di Quiliano insieme a Massimo Priviero e Daniele Biacchessi.

«Stesse emozioni mi ha trasmesso risalire i sentieri partigiani da Quiliano fino a Le Tagliate. Dico che è stata un'impresa perché arrivare in quel posto non è stata di sicuro una passeggiata ma è anche vero che neanche Gesù quando predicava lo faceva in piazza, anzi era solito farlo in luoghi scomodi, difficili da trovare, come dire che la Profezia era alla fine una sorta di conquista. Adesso non è che lo spettacolo con Biacchessi e Priviero e i fratelli Severini abbia qualcosa di profetico ma magari è stato una sorta di allenamento, una preparazione ad altri momenti di condivisione futuri per la riconquista, se non della Profezia, almeno della memoria nostra. Anche lassù ho ritrovato molte facce familiari, dei bei sorrisi e un canto comune, oltre a quella emozione e a quella commozione attorno alle nostre storie che fa la differenza e l'unicità di quell'incontro, quindi ne è valsa la scalata. E il rischio di rompere la coppa dell'olio dell'auto che non è di sicuro un fuoristrada o un suv. Grazie ai compagni dell'Anpi di Savona per averci invitati a narrare, insieme ai nuovi Ribelli della Montagna».

I Gang sono un pezzo di storia del rock italiano e peli sulla lingua non ne avete mai avuti. Vi siete sempre schierati e avete lottato sul palco per far passare il vostro messaggio. Quanto ha inciso tutto ciò sul vostro successo?

«I primi passi nel mondo della musica risalgono alla nostra infanzia e adolescenza come ho avuto modo di raccontare in tante occasioni. Con i Papers' Gang, cioè io e Sandro insieme nello stesso gruppo, abbiamo iniziato alla fine degli anni '70. Quanto al successo tengo a ribadire che "il massimo del successo non è che il fallimento", tanto per citare Dylan. A essere onesto e sincero posso dire, con grande soddisfazione, che oggi mi sento al massimo del successo. Te lo dico rispetto alle aspettative. Quando noi abbiamo iniziato non cercavo di sicuro quel tipo di fama, successo o record di vendite bensì l'appartenenza e questa solo oggi posso dire di averla trovata. Se per successo intendi quel periodo in cui qualche azienda come CGD o multinazionale tipo WEA investiva sui nostri prodotti, lo ritengo un incidente di percorso, utile solo per averci insegnato a non fare più esperienze del genere. Noi produciamo beni culturali quindi il nostro riferimento e interlocutore è la politica. Chi invece produce merci ha per forza di cose come riferimento il mercato con i suoi metri di misura, le sue regole che non sono nostre e non appartengono alla nostra cultura».

In che ambito si può collocare la produzione discografica dei Gang?

«Le canzoni che faccio non rientrato in nessuna categoria se non quella della canzone popolare. Appartengo alla scuola critica e culturale che va da Ernesto De Martino e le sue relazioni con Alan Lomax e passa per Carpitella, Gianni Bosio fino ad arrivare ai Giorni Cantati di Portelli. È in questa storia che si può individuare il lavoro che ho fatto nella canzone italiana, con la peculiarità e l'unicità di aver dato ad essa lo spirito guida o la contaminazione del rock'n'roll, inteso come stagione dell'Umanesimo e come una delle Tre Grandi Rivoluzioni del '900, insieme a quella dei Soviet del '17 e a quella della Teologia della liberazione. Tutto il resto non mi riguarda e credo serva, come tante altre classificazioni, solo al commesso di un negozio di dischi per trovare al volo lo scaffale giusto».

Le vostre canzoni hanno però qualcosa di rivoluzionario, nel senso storico del termine. Non credi?

«Non ho dubbi sul fatto che alcune canzoni possano contribuire a realizzare la Rivoluzione, ma prima forse bisogna chiarire cosa intendo io per rivoluzione. Per dirla con le parole del profeta Pier Paolo Pasolini: ‹la rivoluzione non è più che un sentimento›. Potremmo cominciare da qui, da questa prospettiva. Le canzoni dei Gang mantengono vivo il sentimento della memoria, o meglio ancora, cercano nel loro girovagare un ritorno al fuoco di una nuova appartenenza, condizione indispensabile e primaria del sentimento della libertà. Ogni rivoluzione, per dirla con Gramsci, è un processo, non un atto, quindi un cammino! Le canzoni dei Gang affermano contemporaneamente il luogo da cui proveniamo e quello verso cui stiamo andando. Ma occorre non aderire al canto delle sirene, alla confusione tipica del postmodernismo che svuota ogni funzionalità e di conseguenza riaffermare un ruolo della canzone. E con esso una sua identità».

A che tipo di rivoluzione pensi? 

«La nostra rivoluzione consiste oggi soprattutto nel riconciliare la Terra col genere umano. Ed è all'interno di questo processo rivoluzionario che il lavoro deve trovare una sua nuova centralità e una sua liberazione dallo sfruttamento e dall'alienazione. Un lavoro che produca ricchezza, non merci che affannano il respiro del mondo. E noi siamo già da questa parte del fiume, intenti a costruire la città futura, facendo questa rivoluzione. Le nostre storie cantate, il nostro canzoniere è utile in quanto fornisce un bene culturale che non ha niente a che fare con la merce, e cammina, viaggia, in territori lontani da quelli del mercato e dal suo pensiero unico».

Non avete mai nascosto il fatto di essere di sinistra e nello stesso tempo siete sempre stati critici con i vertici del partito. Come giudichi il momento attuale della politica italiana? 

«Conservo una passione per la politica, quella vera, perché ritengo sia l'arte della mediazione, la più grande delle arti. Quella a cui stiamo assistendo oggi non è però affatto la politica come io l'intendo e la conosco, ma l'antipolitica, l'accanimento, lo sputtanamento, l'umiliazione nei confronti della politica fatta da chi, con i metodi da "banda", si è impossessato dei luoghi della politica, compreso il Parlamento. Per dare una risposta breve devo però constatare che in questo paese ormai si è consolidata un'alleanza fra potere sul territorio, che è anche quello della cosiddetta politica, e il potere del denaro. Questa sorta di patto, non proprio taciuto, porta inevitabilmente all'affare. Ecco allora che chi ha il denaro investe nella politica, o meglio in alcuni "professionisti" della politica, in coloro che portano i voti e li spostano dove a loro conviene. È il mercato che si impossessa della politica. A questo modello non si sottrae la sinistra perché molti candidati hanno i loro sponsor personali e prima di fare gli interessi della comunità fanno quelli dei loro sponsor, o nel migliore dei casi cercano di mediare. L'assenza di regole opportune al risanamento della politica fa sì che si possano anche arrestare cento politici corrotti al giorno con i loro corruttori ma come per il crimine organizzato, per uno in galera ne spuntano fuori altri cento il giorno dopo perché è il sistema che è corrotto e corruttibile fino a che resta quello che è diventato».

La sinistra italiana secondo te ha la capacità di rinnovarsi e trovare finalmente una unità di programma? 

«Le motivazioni del crollo della sinistra in genere sono diverse ma sono convinto che la cornice che tiene insieme il paesaggio delle contraddizioni e delle sconfitte sia soprattutto quella dell'essere finita nella trappola del bipolarismo che ha, di fatto, strangolato quello che restava delle due forze politiche popolari e di massa come gli eredi del PCI e della DC. In questo mare mosso la sinistra "oltre il PD" è naufragata soprattutto perché si è imbarcata su una nave che già faceva acqua da tutte le parti, parlo di quello che restava del transatlantico del compromesso storico, e perché non ha valutato bene i rischi della rotta di navigazione, cioè il Riformismo imposto dall'alto. Pensare di affrontare le grandi sfide della globalizzazione con un riformismo a tratti tecnocratico e con una visione della politica che privilegiava la manovra dall'alto è stato come affogarsi. La sinistra di cui mi chiedi non ha saputo sganciarsi da una visione e una prassi politica condizionata sempre più da un pensiero povero influenzato dalla mitologia del decisionismo. Si è concentrata soprattutto sui "rami alti" del sistema quando avrebbe dovuto invertire la rotta e non far parte di questo equipaggio ormai senza timoniere. E per timoniere intendo un progetto, una visione grande, non un singolo, un leader, un protagonista. E quando la nave cola a picco ecco il litigio per accaparrarsi il proprio salvagente. Non è stata capace di mostrare la propria differenza e unicità. Oggi questa stessa sinistra partecipa a un gioco macabro e anacronistico dettato da faide, particolarismi, dispute nominalistiche. Una sorta di ritorno come scrive Reichlin, ai tempi in cui Firenze, Venezia, Milano si scannavano e l'Italia diventava terra di conquista dello straniero, per finire poi ai margini del mondo moderno. Ma vorrei fornire anche un alibi a questo disfacimento in un quadro più generale e non solo nazionale, cioè lo svuotamento della democrazia, quella "cosa" che ha fatto la storia e la forza del progressismo europeo negli ultimi due secoli. Quella democrazia che non è solo la conta dei voti o strumento di ascesa sociale ma che è mezzo di civilizzazione e mezzo attraverso il quale diventa possibile il cammino verso l'uguaglianza. E oggi il nemico vero della democrazia sono le oligarchie economiche. Questo impone anche alla sinistra "oltre il PD" una radicale revisione di strategia politica».

L'attuale panorama politico occupato dal Governo Monti vede tra i protagonisti il Sel di Vendola e il Movimento 5 Stelle. Che idea hai? 

«Negli ultimi tempi si è assistito al commissariamento dello stato di diritto da parte del governo Monti e a un collaborazionismo della sinistra verso una soluzione non conservatrice ma reazionaria della società e della politica italiana. I fenomeni come quelli di Vendola e di Sel o di Grillo e del Movimento 5 Stelle di fatto, direttamente e indirettamente, promuovono un culto della personalità che va ad ingrassare le fila di chi oggi lavora per la fine di questo sistema democratico e promuove la repubblica presidenziale. Di chi vuole cancellare la nostra Costituzione e instaurare un regime conservatore. Quindi il livello di pericolo della democrazia si è elevato per colpa di questi fenomeni, per non parlare dell'attuale strategia del PD che punta esclusivamente alla sua sopravvivenza con un ruolo nuovo che è quello di ricucire e ricomporre una nuova Democrazia Cristiana rimettendo insieme Rosy Bindi con Casini e allargandola a Vendola e Fini. Oggi stiamo assistendo a quello che un tempo si sarebbe chiamato un colpo di Stato né più né meno. Cioè la fine dello stato di diritto ad opera dell'impero finanziario europeo e non. Oggi allo stato di diritto si è sostituito lo stato impresa e peggio ancora quello del potere di acquisto. Essere cittadino significa semplicemente che sei in grado di acquistare altrimenti non hai nessun diritto. E se ciò avviene è soprattutto grazie all'appoggio di gran parte delle componenti della cosiddetta sinistra italiana».

Qual è la soluzione per rimettere in rotta la nave della politica? 

«A me interessa ricostruire la casa del popolo ma che senso ha fare sempre delle riparazioni e tappare le crepe se la casa ha il tetto che fa acqua, i pilastri crollano e non tengono su l'edificio? Meglio buttare a terra e ricostruire cominciando così a rinforzare per prima cosa le fondamenta o quello che resta di buono e di saldo delle fondamenta. La ditta di muratori capaci di fare questo lavoro, ti confesso, non la vedo. Va rimessa in piedi, rifatta, con i migliori componenti vecchi e nuovi fra manovali, imbianchini, muratori, piastrellisti, idraulici, carpentieri e in quanto a capomastri da D'Alema a Vendola neanche a parlarne. Saranno le nuove lotte a creare i nuovi "sub-comandanti" non la legge elettorale».

Quindi mi pare di capire che dalla torre butteresti giù tutti i politici?

«Penso che noi oggi non abbiamo bisogno di politici ma di "pontefici", cioè di costruttori di ponti fra le culture, i costumi, le religioni, le leggi. Non si tratta di sostituirsi alla politica ma di combattere una lunga e dura battaglia culturale che sia già una rivoluzione nel suo divenire, nel suo camminare. Poi, a ponti fatti, la politica potrà tornare ad essere quella che è stata un tempo: l'arte della mediazione, non fra poteri ma fra sogno e realtà».

Ponti che i Gang hanno sempre provato a costruire con le canzoni. 

«Abbiamo cercato di avvicinare gli strumenti indispensabili alla costruzione del futuro di questo paese attraverso le sue tradizioni che sono ancora vive. Ed è proprio dall'incontro fra tre grandi tradizioni che si sta realizzando una nuova rivoluzione. La tradizione cristiana - quella dei Ciotti, Zanotelli, Puglisi, Balducci, Milani, tanto per fare qualche nome -, la tradizione comunista con una visione della democrazia diversa da quella borghese, si pensi ai consigli di fabbrica, alle case del popolo, alle prime società di mutuo soccorso e infine la tradizione delle minoranze, quella delle sinistre eretiche, dei cantori come Pasolini o Pazienza, dei movimenti per "un altro mondo è possibile", del femminismo e, in piccola parte, anche la minoranza che ha generato in Italia la rivolta dello stile. È da qui che provengo anch'io, in quanto ho cercato di riallacciare le culture delle minoranze italiane con il rock'n'roll. In ogni nostra canzone avviene l'incontro, il confronto e la condivisione di un immaginario comune a queste tre grandi tradizioni italiane».

Nelle ultime settimane il caso Ilva di Taranto ha calamitato l'attenzione dei media. Fino a quando, secondo te, si potrà continuare a sacrificare la salute pubblica al cospetto dell'urgenza lavorativa della popolazione? 

«Il caso dell'Ilva di Taranto oggi è arrivato ad un alto livello di tensione e di esasperazione. Lo possiamo paragonare a decine e decine di casi simili, da Marghera a Bagnoli, alla Falk di Sesto San Giovanni, per certi versi anche al caso Seveso o all'Eternit in Piemonte. Eppure secondo me, per circostanze storiche, il caso Ilva pone la questione ad un punto che prima non era così evidente. Oggi lo scontro diventa epocale fra due diverse concezioni del lavoro. La prima che vede il lavoro come strumento di emancipazione e di conquista della dignità, intesa come diritto alla speranza. Il lavoro come forma di riscatto sociale che trova radice e identità storica nel momento di maggiore forza e consapevolezza del movimento operaio italiano, quello del decennio di lotte degli anni '60-'70. La seconda che vede il lavoro come strumento per "guadagnarsi la pagnotta", per avere un minimo di potere d'acquisto, per sopravvivere, non il lavoro quindi ma il posto di lavoro. Una rivendicazione che non fa parte della storia della classe operaia né del movimento operaio. È invece una resa ad un modello di sviluppo classicamente occidentale che considera ed esalta il progresso misurando tutto in termini di profitto. Ecco allora che il posto di lavoro diventa un'arma di ricatto e quello che resta delle ceneri della classe operaia viene nuovamente presa in ostaggio. Nel caso dell'Ilva finalmente questa contraddizione o meglio questa realtà viene evidenziata come non mai. Senza entrare nei particolari o nel confronto su come uscirne vivi da questa trappola posso semplicemente affermare che non è soltanto lo stato a non avere una politica industriale in questo paese ma quello che è grave, anzi gravissimo, è che né i partiti storici della classe operaia, quindi la cosiddetta sinistra, né i sindacati, assolutamente nessuno di questi, né gran parte della forza lavoro, oggi è in grado di esprimere e di elaborare una visione dello sviluppo diversa da quella dei padroni, quella che punta tutto sul profitto».

Non sembrano quindi esserci vie d'uscita... 

«La legge è l'ancora di salvataggio. È riconosciuto un diritto alla salute, alla vita, e questo diritto individuale e collettivo deve prevalere sul profitto, sulle logiche del PIL e sulla retorica del potere di acquisto, non della sopravvivenza legato del posto di lavoro. Certamente il problema di oggi pratico e teorico, è molto più grande dell'Ilva di Taranto, ed è quello del come si esca dalla lunga storia del movimento operaio, in avanti, senza tornare indietro. Io sono per uno spiazzamento e una rottura netta dell'orizzonte del ricatto e della presa in ostaggio. Per una nuova visione del lavoro come strumento di conquista della dignità, dello stare bene, della vita! Come dire che il futuro anche in questo caso ha un cuore antico. Come ho sempre cantato occorre radicarsi per volare. Mi pare però che su tutto ciò la sinistra parteggi più per il conservatorismo rimandando all'infinito la questione fondamentale. Non scioglie il nodo, anzi. Per Taranto io sono per tre fasi: giustizia, referendum e bonifica. Come per tutte le altre realtà simili, ma la mia è solo una prefazione rispetto ad un tema che è molto più complicato e richiederebbe una spazio molto più ampio di discussione e confronto».

Anche a Vado Ligure c'è un problema di coesistenza tra la popolazione e un sito inquinante come è quello della centrale elettrica a carbone della Tirreno Power. Qual è la tua idea? 

«Tutto quello di cui ho parlato trova conferme nella questione della Tirreno Power. In cima alla piramide di Tirreno Power siede nientemeno che Carlo De Benedetti, che del Partito Democratico rivendicò la tessera numero uno. L'Ingegnere controlla, attraverso la holding Cir e Sorgenia, i destini dello stabilimento. Poi c'è Legambiente che condivide e si schiera da tempo con le posizioni delle Amministrazioni di Vado e di Quiliano, di Provincia e Regione che, mentre si dichiarano pubblicamente contro il potenziamento, di fatto e in maniera evidente non vogliono l'abolizione del carbone nella centrale di Vado. Questo palese disinteresse sugli enormi danni alla salute e all'ambiente e sui relativi costi indotti sul territorio savonese conferma la sudditanza delle stesse Amministrazioni alla Tirreno Power, motivata da consuete forme di finanziamento di cui i Comuni sono spesso gratificati. Legambiente è socio azionario di Sorgenia, si può comprendere quindi il suo ruolo di malcelata sudditanza. La stessa sudditanza che, da tempo, mostra verso quegli enti pubblici di cui condivide in modo acritico le posizioni e da cui risulta già finanziata con lauti contributi. Termino ricordando che anche qui e per tutto ciò c'è la Costituzione e l'art. 32. Come se non bastasse la tutela della salute viene oggi modernamente defini­ta a livello internazionale dall'Organizzazione mondiale della sanità come "uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solamente l'assenza di malattia o di inabilità", ovvero una condizione di armonico equili­brio funzionale, fisico e psichico dell'organismo dinami­camente integrato nel suo ambiente naturale e sociale».

Tornando alla musica e ai Gang, è appena uscito un cd/dvd live che celebra i venti anni di "Le radici e le ali". Quali sono i vostri progetti futuri? 

«Dato per scontato che, come dice il profeta, il futuro non è scritto, quello dei Gang vede all'orizzonte finalmente un disco di inediti. Disco che non si fa da 13 anni. Penso che ce la faremo entro il 2013. Si chiamerà "Sangue e Cenere". Sono dodici canzoni suonate con una vera grande orda d'oro di musicisti provenienti da strade musicali anche molto diverse. Come dire? La lunga marcia continua. A presto, sulle strade, le nostre! Intanto.....Buona Vita!».




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