giovedì 19 dicembre 2013

Giulia Daici canta il Friuli con "Tal cîl des Acuilis"







Il 2013 è stato un anno ricco di soddisfazioni per Giulia Daici. "Tal cîl des Acuilis", terzo disco della sua carriera dopo l'Ep "Attimi" del 2007 e l'album d'esordio "E poi vivere" del 2011, ha convinto la critica e le ha portato in dote il secondo posto al Premio Tenco nella categoria riservata ai dischi in dialetto, dietro al vincitore Cesare Basile. Dopo i primi due episodi discografici cantati in italiano, la raffinata cantautrice, originaria di Artegna in provincia di Udine, ha voluto rendere omaggio alla sua terra con questo nuovo disco cantato interamente in lingua friulana. Nell'album troviamo dieci brani scritti nell'arco di una decina di anni: da "No tu sês", canzone composta nel 2002, fino a "Tal cîl des acuilis", ultima in ordine di tempo, che ha fatto conquistare a Giulia il secondo posto al Festival della Canzone Friulana 2012 e che è entrata in nomination agli Italian Music Awards nella categoria miglior canzone in dialeto dell'anno. La voce dolce e delicata della Daici presenta, in una originale chiave folk-pop, spaccati autobiografici, emozioni e ricordi in una sorta di appassionato diario dei suoi ultimi dieci anni. Un disco interessante, godibile, che non perde nulla della sua integrità anche per chi non conosce il friulano.
Il disco ha visto la luce grazie alla produzione di Simone Rizzi (presente nell'album anche in veste di musicista con tastiere, basso e computer programming) e l'apporto dei chitarristi Andrea Varnier ed Enrico Maria Milanesi, del pianista Alessio De Franzoni, della cantante Serena Finatti e con la partecipazione del Gruppo "In Arte… Buri" di Buttrio e del coro de I Bambini e le Bambine della Scuola Primaria di Artegna.
Del disco e di molto altro abbiamo parlato con Giulia nell'intervista che segue.




Giulia, perché hai scelto di cantare in lingua friulana? 

"In realtà non è stata una scelta studiata a tavolino ma è stato, ed è tuttora, un percorso artistico che è nato spontaneamente e che da sempre procede parallelamente a quello in italiano. Io, infatti, compongo in entrambe le lingue, sia in italiano che in quella friulana. E dopo aver dato visibilità ad alcuni miei brani italiani con i miei lavori "Attimi" ed "E poi vivere", lo scorso anno ho ritenuto giusto far conoscere anche le mie canzoni friulane e così è nato il disco "Tal cîl des Acuilis", che significa "Nel cielo delle Aquile"".

Non pensi che questa scelta possa tagliare fuori una parte del tuo potenziale pubblico? 

"C’è chi pensa che scrivere in lingua locale possa essere limitante ma io credo che sia invece un valore aggiunto, laddove, ovviamente, il tutto nasca in modo spontaneo e con l’intento sincero di esprimere una parte di sé stessi. È vero che l’idioma locale potrebbe forse rappresentare un ostacolo linguistico per la piena comprensione di un testo, però è anche vero che da sempre tutti noi siamo abituati ad ascoltare brani che ci giungono in una lingua diversa da quella italiana - come per esempio la lingua inglese - e che il più delle volte apprezziamo e cantiamo senza per forza aver capito il significato di tutte le parole. La musica non conosce filtri e ha il potere di entrarti dentro in modo immediato. Se un brano "arriva", arriva in qualunque lingua esso sia composto".

Con "Tal cîl des Acuilis" hai conquistato il secondo posto al Premio Tenco nella categoria miglior "Album in dialetto (e lingua locale)". Come hai accolto questo prestigioso riconoscimento? 

"Ovviamente per me si è trattato di una fonte di gioia e di soddisfazione immensa! E continuo a ringraziare dal profondo del cuore tutti i giornalisti che mi hanno ascoltata e sostenuta, che hanno dimostrato stima e fiducia verso il mio lavoro e che mi hanno dato questa preziosissima possibilità".

A vincere la categoria è stato Cesare Basile che non è andato a Bari a ritirare il premio in polemica con il Club Tenco. Basile ha detto "no grazie" per protesta contro gli attacchi del presidente Siae Gino Paoli al Teatro Valle di Roma, dove avrebbe dovuto svolgersi una manifestazione organizzata proprio dal Club Tenco, e a tutti gli spazi occupati dove si fa musica e arte. Hai seguito la vicenda? Cosa ne pensi del dietrofront del Club Tenco che ha annullato l’evento romano e dell’esternazione di Basile? 

"Sull’argomento si è già detto e scritto tanto e non credo serva aggiungere altro. Sicuramente tutte le decisioni sono state prese con serietà e responsabilità da parte degli interessati. Riguardo al non ritiro della targa, posso solo dire che personalmente non lo trovo un gesto molto corretto nei confronti dei giornalisti che hanno sostenuto e dato la loro fiducia ad un lavoro piuttosto che ad altri progetti e anche nei confronti degli altri finalisti della categoria in oggetto, in questo caso quella del miglior album in dialetto. Ma questa è solo una mia opinione personale".

Cosa pensi del Premio Tenco?

"Indubbiamente si tratta di uno dei riconoscimenti più ambiti ed importanti per la musica d’autore in Italia".

Quando sono nate e di cosa parlano le tue canzoni? 

"Tutte le mie canzoni sono autobiografiche ed ognuna di loro rappresenta una parte di me stessa. Mi piace pensare ad ogni mio brano come ad un ponte che collega il mio mondo interiore, con tutti i suoi moti ed emozioni, con l’universo che mi circonda. Con riferimento specifico all’album "Tal cîl des Acuilis", questo è di fatto una raccolta di canzoni in friulano che io ho scritto negli ultimi dieci anni, a partire dal brano più distante nel tempo, "No tu sês" ("Non ci sei", composto per un nonno nel 2002) fino alla canzone più recente, "Tal cîl des acuilis" che dà il titolo all’album. Filo conduttore di tutti i brani sono le emozioni profonde ed i momenti di vita vera vissuti da me in prima persona nella mia terra; in ognuno di loro richiamo elementi legati alle mie origini, alle mie radici, a tutti quegli affetti e a quelle immagini che rimarranno sempre impressi nel mio cuore e nella mia mente, come un tatuaggio indelebile sulla pelle. Non a caso, sulla copertina del disco ho voluto apparire di schiena mostrando, tatuata sull’epidermide, un’immagine che richiama, appunto, l’Aquila, simbolo del mio Friuli".

Cantare un disco in lingua locale è stato un episodio o pensi di proseguire su questa strada?

"Certamente proseguirò con piacere! Mi piace sempre sottolineare che il disco "Tal cîl des Acuilis" non va considerato come una semplice parentesi nel mio percorso artistico, in quanto le parentesi si aprono e si chiudono mentre qui si tratta di un progetto che ho sempre portato avanti – e continuerò a portare avanti - parallelamente a quello in italiano".

Il dialetto/lingua locale unisce o divide?

"Ciò che ti unisce e ti ricongiunge alle tue radici non può essere motivo di divisione ma semmai può diventare una preziosa occasione di arricchimento, sia per chi lo esprime sia per chi lo ascolta. Ogni lingua si fa portavoce di un bagaglio storico, culturale e umano unico. Perderlo vorrebbe dire perdere una parte importante della nostra storia. Non omologhiamoci a tutti i costi: scegliamo di ascoltare, aprire la mente, accogliere ciò che di nuovo e di bello può giungerci ogni giorno e in ogni contesto, sia nazionale sia appunto locale".

Cosa offre attualmente la scena musicale friulana?

"C’è molto fervore e stanno emergendo tante nuove e belle realtà musicali, soprattutto a livello cantautorale".

Come è nata la tua voglia di comunicare utilizzando la musica?

"Sebbene mi sia sempre piaciuto cantare, non mi sono mai "forzata" cantautrice. E’ stato un lento processo di autoconsapevolezza che ha fatto emergere sempre più l’esigenza di esprimere attraverso la musica le mie emozioni, il mondo interiore che pulsava dentro me e che io non riuscivo a trasmettere verbalmente. Sentivo che mi mancava qualcosa, e quel qualcosa l’ho trovato quando un giorno, ai tempi del liceo, ho preso in mano la chitarra e ho iniziato a comporre la mia prima canzone. Si chiamava "Nel cielo" ed esprimeva il mio desiderio di essere libera, libera di esprimermi andando, se necessario, anche controcorrente. Da quella prima volta sono passati ormai diversi anni: da allora non ho mai smesso di cantare, non ho mai smesso di scrivere, non ho mai smesso di viaggiare con la musica".

In una recente intervista Keith Jarrett ha dichiarato <la musica è qualcosa che viene da dentro, qualsiasi circostanza esterna, qualsiasi forzatura uccide la spontaneità>. Cosa ne pensi di questa affermazione? 

"Sono pienamente d’accordo. Ho sempre pensato anche io che la musica sia qualcosa di spontaneo, qualcosa che prima di tutto hai dentro e che, se la fai, la fai innanzitutto per "essere" (ovvero per portare fuori la parte più vera di te) e non per "apparire". La fai perché non ne puoi fare a meno e perché è una parte essenziale di te, a prescindere da risultati o ambizioni. Nemmeno a me piacciono i progetti studiati a tavolino, quelli "forzati" che nascono con il solo scopo di far leva facilmente sulle masse e raggiungere il così tanto agognato successo, ma che alla fine, a ben guardare, con la musica hanno davvero poco a che fare. A proposito di forzature, noto poi spesso come molte persone diano molto peso soltanto all’estensione vocale di un cantante, alla sua intonazione ed al suo saper cantare bene, come se fare la differenza fosse solo una questione di tecnica. Siamo circondati da voci bellissime e da cantanti dotati di una tecnica vocale ineccepibile. Saper cantare bene non è un pregio di pochi. Ma riuscire ad emozionare invece lo è. È il cuore che fa la differenza. Certo, è indubbio che lo studio, la tecnica o l’intonazione possano migliorare l’interpretazione di un brano e possano contribuire a trasmettere emozioni ma, a mio parere, da sole non possono fare molto. La tecnica vocale è un qualcosa che si può sempre acquisire nel tempo e migliorare. La sensibilità artistica - umana prima ancora che musicale - è invece, a mio parere, una dote innata, propria di chi sa aprire il proprio cuore e trasmetterlo agli altri".

Negli Stati Uniti, complice anche il film dei fratelli Coen "Fratello, dove sei?", si è assistito alla riscoperta del genere folk e alla nascita di decine di band molto valide. Potrà succedere mai una cosa del genere in Italia con la musica tradizionale?

"Anche in Italia le risorse non mancano ed anche qui da noi esistono già tante valide band che si dedicano con passione, oltre che con bravura, al genere folk e alla musica tradizionale. La qualità non manca. Manca semmai una maggiore visibilità ed una maggiore attenzione mediatica, ma questo è comunque un problema ormai generalizzato che colpisce anche la musica d’autore italiana, e soprattutto quella emergente. Ma, come si dice, mai disperare e mai perdere la speranza. D’altra parte, come diceva un noto film: non può piovere per sempre…".


Titolo: Tal cîl des Acuilis
Artista: Giulia Daici
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2012




mercoledì 11 dicembre 2013

The Traveller musica la tetralogia di Shakespeare






"Uncensored Kingdom" è il titolo dell'ambizioso progetto musicale di Massimiliano Forleo, in arte The Traveller. Il rocker milanese, fondatore con Dario Accardi dei The Lorean, ha pubblicato il 2 dicembre il primo di tre Ep che metteranno in musica la tetralogia minore di Shakespeare. Con l'Ep "The King" Forleo presenta la figura di Riccardo III. Cinque canzoni i cui testi sono scritti in prima persona come se fossero cantati dal protagonista della storia. Il disco inizia con "Richard III", brano in cui il Riccardo si presenta al pubblico. In "The Mirror" Riccardo espone i suoi progetti e ammette di voler imprigionare il fratello per potergli succedere al trono. In "Human clockwork" è Giorgio, fratello di Riccardo, a cantare. "York" è il momento in cui, dopo aver ricevuto nel sonno la visita dei fantasmi delle persone che ha ucciso, Riccardo implora l'aiuto divino. Infine "Bosworth field" è il capitolo finale in cui, sul campo di battaglia di Bosworth, Riccardo si rende conto di aver sbagliato e muore trafitto dalla spada del conte di Richmond.
Max Forleo ha intrapreso la carriera solista nel 2010 dopo lo scioglimento dei The Lorean. Con il nome The Traveller ha firmato due album: l'omonimo "The Traveller" nel 2011 e "Life" dell'anno successivo.
Con Massimiliano Forleo abbiamo parlato del suo nuovo ambizioso progetto.



Come è nata l'idea di dare vita a una trilogia musicale ispirata alla figura di Riccardo III?

"L'idea è nata dalla volontà di fare un musical. Ho sempre ammirato e ascoltato "Jesus Christ Superstar" e ho avuto il piacere di suonare il "Joseph and the amazing Technicolor Dreamcoat". Insomma, mi è sempre piaciuto legare il canto alla recitazione. La trilogia "Uncensored Kingdom" è pensata su tutta la tetralogia di Shakespeare. Verranno infatti cantate sia la figura di Enrico VI che quella di Riccardo III. Le quattro opere teatrali saranno riassunte in quindici canzoni. Sono partito dalla fine, perché in verità il "Riccardo III" che canto in questo primo Ep è il riassunto in musica dell'ultimo atto della tetralogia di Shakespeare".

William Shakespeare dipinge Riccardo Plantageneto come un re malvagio e crudele. Lo è anche nelle tue canzoni?

"Assolutamente sì. Spietato e crudele. Nella canzone "The Mirror" racconto come prende le distanze dal fratello che con l'inganno viene rinchiuso nella torre. In "Richard III" descrivo inoltre la morte (da me romanzata) della moglie da lui stesso causata. La sua figura malvagia fa capolino anche nella copertina. Riccardo III, in combutta con la Chiesa, è rappresentato come un maiale in un atto di cannibalismo".

Se dovessi trarre una metafora di vita da questa storia?

"Come nel video del singolo in una visione dantesca: ad azione corrisponde poi il contrappasso. La smania di potere, l'ingordigia hanno portato il Re al tracollo".

Sei appassionato di storia?

"Non direi tantissimo, sono più appassionato di arte".

Torniamo a parlare della copertina. Raffigura un maiale seduto al tavolo da pranzo insieme a due porporati che hanno una croce bianca come testa...

"E' Riccardo a tavola insieme ai suoi alleati. Mangiano un uomo gomitolo, figura tipica delle mie copertine, che rappresenta l'uomo comune. E' proprio nella copertina raffiguro la smania di potere con l'ingordigia che rende il Re un maiale".

Perché hai deciso di chiamarti The Traveller?

"Perchè il viaggio è il segreto per portare in giro la propria musica. E anche perché da quando ho cominciato a suonare musica originale, nel 2003, sono sempre stato in viaggio".

Quando sei in viaggio che musica ascolti?

"Di solito dormo oppure guido. Non ascolto nulla!".

Dove ti porterà il viaggio?

"Spero ancora lontano. Il viaggio mi porterà quest'anno ancora in giro per l'Italia, nei mesi di  febbraio e marzo nell'est Europa e soprattutto ad aprile negli Stati Uniti. Il viaggio è in continuo mutamento a seconda dei nuovi input che la vita regala. Questo viaggio mi ha portato in mezzo alla gente e ha portato la mia musica negli stereo delle persone".

Perché hai scelto di abbandonare i The Lorean e intraprendere la carriera solista?

"Il progetto The Lorean l'ho iniziato nel 2003 insieme a Dario Accardi. Nel corso degli anni si è sviluppato e la line up è cambiata più volte. Ho sempre desiderato che la band fosse tale, invece non è mai stato un gruppo nella produzione, nella sponsorizzazione e negli investimenti. Al che, dato che ero solo nella parte produttiva e il 90% delle canzoni erano le mie, ho continuato da solo".

Rimpiangi di averlo fatto?

"No".

Ci sono musicisti che ti hanno influenzato?

"Direi su tutti Jeff Buckley, U2, Massive Attack e Coldplay".

Hai un disco favorito? Il favorito di sempre?

"Non posso che dire "Grace" di Jeff Buckley".

Come sono strutturati i tuoi concerti?

"La scaletta pesca nei tre album pubblicati ma cambia ogni sera in base alla risposta del pubblico e da come sento la serata. Spesso scatta il momento jam in cui improvvisiamo un po' di classici del rock internazionale per carpire l'attenzione anche dei più refrattari".

Suoni in acustico o ti accompagni con altri musicisti?

"Mi esibisco in entrambe le combinazioni. Quando suono da solo mi accompagno con una chitarra dodici corde, mentre con la band uso una sei corde Maton".

Nel corso della tua carriera hai suonato molto anche all'estero. Rispetto alla situazione italiana ci sono delle differenze che ti hanno colpito?

"La prima differenza è che nell'ambito underground bisogna sfatare un mito: i locali sono più attrezzati in Italia. La seconda è che l'attenzione del pubblico e la voglia di fare musica originale da parte dei locali è più alta all'estero".


Titolo: Uncensored Kingdom - Part I (The King)
Artista: The Traveller
Etichetta: My Place Records
Anno di pubblicazione: 2013





mercoledì 4 dicembre 2013

I valdostani L'Orage cantano "L'Età dell'Oro"





Si chiamano L'Orage (temporale in francese) e sono il gruppo rivelazione valdostano che anche Francesco De Gregori ha voluto al suo fianco. Con il loro terzo album, "L'Età dell'Oro" uscito quest'anno sotto etichetta Sony, la band ha compiuto l'atteso salto di qualità conquistando critica e un'ampia schiera di appassionati. Il loro festoso "rock della montagna" è intriso di musica tradizionale, del folk delle valli delle Alpi Occidentali, dell'insegnamento dei cantautori italiani e francesi e di una spolverata di rock. Una musica che viene da lontano ma sempre moderna e attuale. Con l'ausilio di ghironde, organetto, violino ma anche di chitarre elettriche, basso e batteria, l'ensemble di sette elementi, capitanato dal cantante e autore Alberto Visconti, dà vita a un suono fresco e per certi versi innovativo. Anche i testi delle canzoni sono ricercati e la vena poetica di Visconti trova spunti nella migliore letteratura: da Rimbaud a Calvino e Pavese.
In attesa di ascoltarli dal vivo al Teatro Ambra di Albenga il 6 dicembre, in occasione della seconda serata della rassegna "Su La Testa" organizzata dall'Associazione Culturale ZOO, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Alberto Visconti.




Alberto, ci racconti come è nato il progetto L'Orage?

"Nel 2006, appena tornato da un periodo trascorso in Sud America e dopo qualche anno di inattività artistica, ho ricominciato a esibirmi dal vivo ad Aosta e a Torino. Ero circondato da un mondo variegato e un po' fricchettone in cui si suonava molto... facevamo fuochi nei boschi e suonavano intere nottate. Durante l'estate ho coinvolto il polistrumentista Rémy Boniface, già molto conosciuto in Valle d'Aosta perché membro dei Trouveur Valdotén e in numerosi altri progetti, in alcune date e la risposta del pubblico è stata entusiasta. La commistione tra le mie canzoni e i suoni del violino e dell'organetto diatonico, condite dal martellare di una discretamente folta schiera di percussionisti intercambiabili di volta in volta creavano un sound che aveva qualcosa di speciale e la gente ha cominciato a seguirci. In pochi mesi ci siamo ritrovati a tenere concerti affollatissimi nei locali di San Salvario, a Torino. Erano esperienze piuttosto selvatiche durante le quali ci affidavamo molto all'improvvisazione. Suonavamo di tutto, dai Velvet Underground ai balli tradizionali passando attraverso i CCCP e i Noir Désir. Mi sono capitate di recente tra le mani delle registrazioni risalenti a quel periodo e le ho trovate molto emozionanti.

Il passo successivo?

"Si è compiuto durante uno di questi concerti al "Covo della Taranta", in occasione del quale si è unito a noi il fratello di Rémy, Vincent Boniface. Vincent è uno strepitoso polistrumentista e la sua esperienza insieme al suo affiatamento musicale col fratello ci hanno fatto compiere un primo salto di qualità. A quel punto però, per supportare degnamente la musica che stavamo immaginando, non potevamo più accontentarci di formazioni estemporanee, avevamo bisogno di una vera band. Diciamo che verso la fine del 2008 avevamo reclutato la formazione completa, che non è mai stata modificata: oltre a noi tre Florian Bua alla batteria, Stefano Trieste al basso, Ricky Murray alle percussioni e Memo Crestani al basso. La squadra ha funzionato bene dal punto di vista musicale ma sopratutto dal punto di vista umano. Ce la siamo veramente spassata!".

Da cantautore folk a leader di una band. Perché hai fatto questa scelta e cosa cambia nel tuo approccio compositivo?

"Sono stato cantautore più per necessità che per vocazione. Sono uno spirito libero e fin da ragazzo mi è piaciuto viaggiare con la chitarra. Poi ho buona memoria e ricordo un sacco di canzoni, quindi, nel piccolo mondo valdostano ho animato centinaia di feste, mi piace suonare. Però, quando si è trattato di registrare le mie canzoni ho sempre cercato la collaborazione con i musicisti. Se è vero che i miei maestri sono stati Cohen, Dylan, Brel e Brassens è infatti altrettanto vero che in materia di dischi ho sempre idealizzato molto la pulizia del suono degli album dei Beatles. Non amo la trascuratezza in musica e trovo biasimevole proporre al pubblico una bella canzone suonandola in maniera approssimativa. La collaborazione con questa band è stata per me un'esperienza molto appagante. Inoltre suonare con un gruppo è molto meno faticoso di tenere un intero concerto da solo. Credo di essere cresciuto molto come musicista e come interprete grazie al confronto e al lavoro con i miei compagni de L'Orage. Dal punto di vista compositivo il fatto di scrivere per un gruppo ha significato sopratutto disinteressarsi un po' all'aspetto chitarristico delle canzoni lavorando invece maggiormente su quelli ritmico e armonico. Inoltre il confronto costante con i fratelli Boniface, che firmano insieme a me la musica delle canzoni, mi ha portato a imparare a mettermi molto in discussione".

Quanto incide la cultura francofona sulla vostra musica?

"Direi parecchio. Intanto perché si tratta di un "altrove" musicale diverso dal solito anglosassone che  per noi è molto accessibile grazie al fattore linguistico. In secondo luogo perché si tratta di un mondo musicale ricchissimo che influenza la musica de L'Orage da due fronti. Da un lato, il mio, risentiamo dell'influenza dei grandi cantautori d'oltralpe: Brassens, da una canzone del quale prendiamo il nome, Brel, e Gainsbourg del quale abbiamo anche inciso una cover. Dall'altro lato, quello dei fratelli Boniface, la musica tradizionale, il Trad francese è, per molti versi, la nostra musica tradizionale, quella che suoniamo e che balliamo. La famiglia Boniface, i Trouveur Valdotén, hanno svolto un ruolo cruciale nella riscoperta del repertorio tradizionale nella nostra regione che è una regione in cui si parla il francoprovenzale. Come puoi immaginare si tratta di un intero universo di influenze che arrivano dalla Francia".

"L'Età dell'Oro", il vostro terzo album, ha ricevuto ottime critiche ed stato pubblicato per l'etichetta Sony. Un bel risultato, ve lo aspettavate?

""L'Età dell'Oro" segue "Come una festa" del 2010 e "La bella estate" del 2012. In buona misura è una raccolta del meglio dei due album precedenti che non avevano avuto una distribuzione al di fuori dei nostri concerti (arrivando comunque a superare le 6.000 copie vendute). Quando la Sony ci ha contattato proponendoci la pubblicazione di un album abbiamo pensato che avremmo dovuto creare qualcosa che, da un lato, accontentasse chi già ci seguiva e per questo abbiamo inserito tre inediti di studio e tre live e, dall'altro, permettesse a chi ci scopriva tramite questo primo album distribuito di entrare subito nel cuore dei nostri spettacoli. Abbiamo così selezionato le canzoni più amate dal nostro pubblico. Devo dire che un po' ce lo aspettavamo o perlomeno ci speravamo. Fin dalle prime incisioni ci siamo imposti standard qualitativi molto alti, lavorando da e con i professionisti. Troviamo molto stimolante lo studio d'incisione e abbiamo speso molto tempo ed energie, insieme ai nostri fonici, per ottenere il sound che desideravamo".

Qual è la vostra età dell'oro?

"Attualmente il nostro obiettivo è quello di incrementare il live. Vorremmo girare la penisola più ancora di quanto stiamo facendo; ci sentiamo pronti per i grandi festival. È sui palchi grossi che L'Orage esprime il suo meglio. Ah, poi vorremmo la pace nel mondo, la tolleranza, le autostrade gratis, la legalizzazione della cannabis, un governo composto da persone oneste e laboriose, un endorsement con la Lamborghini e altre cosucce".

Cosa volete comunicare con la vostra musica?

"Vogliamo comunicare che è possibile fare una musica diversa senza rinunciare a fare festa, al ritmo. Vogliamo comunicare che gli strumenti acustici suonati e dei testi un po' più ricercati rendono un concerto più entusiasmante rispetto alla monotonia dello standard commerciale. Vogliamo comunicare che è ora in Italia di liberarci dalla soggezione per tutto ciò che arriva dall'estero perché è ora di finirla di entusiasmarsi per i Mumford and Sons per poi produrre Marco Carta (povero, è simpatico, non me ne voglia, lo invito a cantare con noi!). Vogliamo comunicare la nostra maniera di stare al mondo, di amare la natura, l'amicizia, la musica... Esagero?".

Direi proprio di no! Nel vostro ultimo album avete come ospite Francesco De Gregori, caso più unico che raro. Come è stato lavorare con lui e come è nata questa collaborazione?

"Abbiamo conosciuto Francesco a Musicultura 2012, dove lui era ospite e noi siamo stati i vincitori assoluti. Io volevo semplicemente stringergli la mano, un po' intimidito e invece abbiamo fatto amicizia. Pochi mesi dopo ci siamo incontrati nuovamente ad Aosta e io gli ho proposto questa collaborazione un po' pazza. Lui ha accettato immediatamente! Insieme abbiamo realizzato un intero spettacolo riarrangiando alla nostra maniera una dozzina di suoi pezzi. Come ciliegina sulla torta finale lui ha cantato una mia canzone, "La teoria del veggente", che ora trovate ne "L'età dell'oro". Lavorare con lui è stato facile, divertente, stimolante e terribilmente istruttivo. In prova è sempre impeccabile, si potrebbero pubblicare le registrazioni delle prove vista la qualità costante del suo cantato. Quando, dopo tutto quel lavoro, siamo usciti sul palco insieme, davanti a tutto quel pubblico... beh... è stato uno dei momenti più emozionanti della nostra vita".

Non pensi che l'aver inserito tre brani dal vivo - "La teoria del veggente" cantata da De Gregori, la strumentale "Laridé de la Principesse" e "Satura" - faccia perdere omogeneità al disco?

"Come dicevo "L'Età dell'Oro" è un disco costruito per essere una specie di compendio del nostro mondo e non è quindi pensato come un album. Ciononostante io ho l'impressione che fili liscio e che i tre live finali aggiungano una nota di calore che non guasta affatto a fine ascolto. Inoltre, se De Gregori avesse cantato una tua canzone tu non la inseriresti in un disco? Anche le versioni di "Satura" e "Laridé" le volevamo inserire perché ci piacevano più delle registrazioni di studio. Ad ogni modo speriamo di pubblicare presto un intero album live, cosa che stranamente i nuovi gruppi non fanno mai".

"Come una festa", il vostro primo disco, presenta dodici canzoni che girano intorno alla figura e all'opera del poeta Arthur Rimbaud. Quanto hanno in comune poesia e musica?

"Musica e poesia sono nate insieme e, nel corso della storia si sono respinte e di nuovo attratte come la coppia dei "vecchi amanti" cantata da Brel. Il nostro primo strumento musicale è stata la voce, quindi non c'è cosa più naturale del cantar parole. Sono due linguaggi dell'anima, capaci di penetrare sotto la scorza degli anni e della quotidianità".

Quanto la parola scritta, che siano poesie o narrazioni, influenzano la vostra musica e i vostri testi?

"I riferimenti letterari che spesso inseriamo nei nostri testi hanno la funzione di espandere lo spazio narrativo della canzone, un po' come se si trattasse di link che uno, se vuole, clicca. Però cerchiamo di non essere pesanti o eccessivamente "professorali" e spero che se uno non coglie il riferimento a Rimbaud ne "La teoria del veggente" possa ugualmente godersi la canzone. Più in generale credo che l'unica maniera per godere realmente di un'opera d'arte sia quella di leggerla alla luce della storia dell'arte. È quindi abbastanza naturale cercare un dialogo, e anche ispirazione in quanto è stato scritto prima. Ti faccio notare che lo stesso processo di "citazione mascherata" che adoperiamo nei testi lo applichiamo anche alla musica. Nei nostri dischi trovi parecchie citazioni musicali, le hai scovate?".

Qualche citazione l'ho trovata. L'Orage è composto da sette elementi. Come vi dividete i compiti quando si tratta di lavorare a un nuovo disco?

"Generalmente io mi presento in sala prove con gli scheletri delle nuove canzoni, giusto voce e armonia. A quel punto, guidati da Vincent, proviamo a esplorare le possibilità del nuovo brano, suonando con strumenti diversi, o sperimentando differenti ritmi e tonalità. Siamo molto esigenti con noi stessi, ci sono pezzi che stiamo lavorando da tre anni e che ancora non ci sembra abbiano trovato la loro giusta veste. Una volta trovato il giusto mood ogni musicista rifinisce le sue parti. Stiamo dedicando un'attenzione crescente alle parti vocali degli arrangiamenti, visto che siamo in tre a cantare".

Qual è la vostra visione della musica tradizionale?

"La musica tradizionale è il nostro principale nutrimento, è l'acqua sulla quale navighiamo. Inoltre, oggi, è la musica più attuale che ci sia. Il progresso tecnologico, a differenza di quanto creduto dai pionieri di certa musica elettronica, non ha portato tanto alla creazione di nuovi suoni strabilianti quanto piuttosto alla creazione di apparecchi estremamente fedeli nel catturare e riprodurre il suono degli strumenti acustici. Portare una ghironda su un grande palco da rock trent'anni fa era impensabile non tanto per ragioni artistiche quanto per ragioni tecniche. È il motivo per cui i Beatles hanno smesso di suonare dal vivo quando hanno cominciato a inserire archi, trombe e sitar nei loro dischi. Il famigerato ritmo "forsennato" del rock'n'roll alle orecchie di oggi risulta abbastanza monotono nel suo ostinato quattro quarti, anche un ragazzino in discoteca troverebbe più trascinanti (e in effetti avviene) certi ritmi balcanici. Voglio dire che non è che prima la gente non avesse il senso del ritmo! Inoltre non esiste al mondo suono sintetico capace di toccare certe corde emotive al pari del timbro di uno strumento acustico, di un violino, di un organetto, di una chitarra. Credo che qualche secolo di ricerca, dedizione ed esperimenti sul ritmo compiuti da generazioni di anonimi musicisti popolari siano un patrimonio la cui riscoperta ha dell'entusiasmante e di cui dobbiamo essere grati alla generazione che ci ha preceduto: ai Malicorne, ai Fairport Convention, o, più vicini nel tempo, ai Lou Dalfin. Inoltre la musica tradizionale è per sua natura molto aperta e coniugabile con infinite influenze, perché non quindi con il rock o la canzone d'autore?".

Qual è lo stato di salute della musica in Valle d'Aosta?

"Direi ottimo. Ho l'impressione che si tratti - tenendo conto delle dimensioni - di una delle regioni più frizzanti d'Italia dal punto di vista musicale. E te lo dimostro: oltre a L'Orage sono valdostani la cantautrice Naif, il gruppo teen rock de I Dari, Francesco C che ha scalato le classifiche negli anni novanta, I Kina che sono stati forse, insieme ai CCCP, il principale gruppi punk in Italia, i Kymera che hanno sbancato a X-Factor, il primo violoncello dell'orchestra della Rai Stefano Blanc, i Nanda super gruppo blues appena tornato da una tournée negli Stati Uniti e tanti tanti altri. Voglio inoltre sottolineare che esistono anche importanti realtà produttive. Lo studio con cui collaboriamo per esempio, il MeatBeat di Sarre, registra e produce progetti provenienti da tutta Italia".

"Questa musica ci porterà lontano", è una affermazione che si sente al termine della canzone "Satura". E' un sogno o ne siete convinti?

"Mi fa piacere questa domanda: dimostra che hai sentito il disco proprio fino in fondo. Ad ogni modo crediamo a quell'affermazione fermamente se riferita alla musica contenuta in tutto il disco, forse un po' meno se riferita alla sola ghost track!".

Dove volete andare e quali sono i progetti futuri?

"Tra pochi giorni presenteremo il nostro nuovo videoclip al Festival del Cinema Noir di Courmayeur. Più sul lungo periodo stiamo pensando a un album per il mercato europeo. In ogni caso la priorità rimane il live: l'ho detto e lo ripeto, vogliamo i palchi dei grandi festival".


Titolo: L'Età dell'Oro
Artista: L'Orage
Etichetta: Sony Classical
Anno di pubblicazione: 2013





mercoledì 20 novembre 2013

Emanuele Belloni: l'incontro con Guinga e il Tenco






L'amore per i ritmi brasiliani, l'incontro con Guinga, il primo disco e il Premio Tenco. Emanuele Belloni non ha avuto fretta a percorre queste tappe e ad avvicinarsi al mondo della musica, quella standardizzata e scandita da scadenze ben definite. Ha vissuto, viaggiato, fatto maturare la sua arte e solo allora, grazie anche ad un incontro fortunato, di quelli che cambiano la vita, ha capito che era giunto il momento di dare seguito alla sua passione. E così, dall'incontro magico con il chitarrista e compositore brasiliano Guinga e dalla voglia di provarci è nato "E sei arrivata tu", disco d'esordio che non è passato inosservato. È finito dritto dritto nella cinquina finalista dal Premio Tenco categoria opere prime e la giuria gli ha riservato il secondo posto finale ma soprattutto è arrivato il riconoscimento unanime della qualità della proposta di questo cantautore.
Così lo descrive Guinga: ‹Se le sue canzoni diventeranno famose non dipenderà solo dalla sua sensibilità, ma dal contenuto di esse. Canzoni che, sono certo, arriveranno con molta forza ed energia al cuore di chi le ascolterà. Penso che questo primo lavoro sia solo l'inizio di un'opera intera bellissima, che si concretizzerà con il tempo›.
E per capire chi è Emanuele Belloni non abbiamo avuto idea migliore che chiederlo direttamente a lui.


Come ti sei avvicinato alla musica brasiliana? 

«Tutto è nato da una cassetta di Jobim, circa 30 anni fa. Mi impressionò subito la bellezza armonica dei brani, la melodia suonata fuori dalla marcazione "quadrata" e il ritmo avvolgente».

Da dove nasce il tuo amore per il Brasile?

«Da infatuazione ad innamoramento ci sono voluti anni di studio - con Gianluca Persichetti splendido chitarrista, maestro e amico -, una spruzzata di incontri con musicisti e autori carioca conditi da qualche viaggio: a quel punto è stato colpo di fulmine!».

Quali sono i tuoi autori preferiti?

«Se parliamo di Brasile, gli storici senza dubbio andando anche più indietro nella tradizione con Villa Lobos, Cartola, Noel Rosa fino a Caetano, Djavan e Joao Bosco. La buona musica italiana da Tenco a De Andrè e il rock anni Sessanta, con punte psichedeliche nei Settanta. Insomma la musica di "prima" nessuno l'ha superata».

Sei arrivato secondo al Premio Tenco nella categoria opera prima. Come hai vissuto l'esperienza sanremese?

«Il Premio Tenco è sempre stato per me l'obiettivo, in quanto a qualità e riconoscimento, per un percorso di canzone d'autore: sei mesi fa non era uscito né un disco né un concerto. Chi mi sveglia dal sogno?».

Cosa pensi di questa manifestazione che, nonostante i problemi economici, resta la vetrina più importante per i cantautori?

«Credo che sia in assoluto il più importante palcoscenico per i cantautori. Ci sono però delle piccole incongruenze: i giurati hanno poco tempo per ascoltare tutte le proposte e non c'è più lo spazio per una fase finale dal vivo. Nella categoria dischi d'esordio, poi, avrebbe senso includere gli esordienti veri e non chi è già noto al pubblico con precedenti formazioni musicali. Così come nella categoria disco dell'anno la presenza dei superbig (De Gregori, Guccini e Fabi quest'anno) azzera le possibilità di vincita dei meno noti. Non dimentichiamo che chi esordisce lo fa di solito con le sole sue energie, senza major e con tanta fantasia».

Determinante per il tuo primo disco è stato l'incontro con Guinga. Ci racconti come è avvenuto?

«Ad un concerto. Sono stato fulminato da come raccontava i suoi brani, voce e chitarra. Un chitarrista superbo dallo stile unico e inimitabile. L'ho avvicinato dopo il concerto e gli ho chiesto una lezione di chitarra. E lui mi ha regalato la consapevolezza di essere un musicista».

Guinga e Alfredo Paixão. Quanto e come hanno contribuito alla tua musica e alla tua crescita artistica queste due figure?

«Sono stati l'anima armonica e l'anima ritmica di questo lavoro. Guinga ha illuminato i brani più significativi del disco con armonizzazioni mozzafiato. Alfredo è stato la guida ai suoni e alla scelta dei musicisti più significativi. Guinga mi ha fatto capire che l'anima della musica ha sempre un accordo perfetto, Alfredo Paixão che vanno rispettate e non mischiate le qualità degli strumenti: insomma niente salmone con i porcini!».

Nel disco, oltre al Brasile, paghi il tuo debito anche ai grandi della scuola genovese. Qual è il tuo rapporto con i vari Tenco, De Andrè, Lauzi, Ciampi…?

«Ho sempre ascoltato i 33 giri presenti nella discoteca di mio padre e ho approcciato ad orecchio i primi accordi di chitarra. Impossibile non rimanere incantati dalla semplicità degli accordi e dalla magia di quelle storie raccontate nelle canzoni. Il primo brano è stato "Tutti morimmo a stento", De Andrè vol.1: facevo la tromba con un kazoo».

A 42 anni hai pubblicato il primo disco; non è l'età di un esordiente. Quando e perché ti sei avvicinato alla musica?

«Come ti dicevo, intorno ai 10 anni la prima chitarra rubata a mio fratello. A 15 anni il primo brano scritto per una compagna di banco e a 17 "Lo Sceriffo del west" che ha dovuto aspettare 25 anni per diventare un brano del mio primo disco. In mezzo ci sono stati tanti brani che oggi, a rileggerli, sono un po' il mio diario personale. Ma senza Guinga che mi propose di produrre il disco in Brasile, credo che non staremmo qui a parlare io e te».

Nella vita hai fatto anche il tecnico informatico e ci si sarebbe aspettati un utilizzo delle nuove tecnologie anche nel disco. Invece sei andato nella direzione opposta: tutto acustico. Perché?

«Perché volevo sentire l'anima degli strumenti e la genialità dei loro magici esecutori - Enzo Pietropaoli, Franco Piana, Michael Rosen, Israel Varela, Nelson Faria per citarne alcuni - che, senza parti obbligate, sono venuti in studio e hanno seguite le linee guida mie e di Alfredo Paixão. Non è un rifiuto delle nuove tecnologie ma la consapevolezza che sei corde, una pelle e un ottone possono creare qualcosa di più magico se pizzicate, percosse e soffiate».

La copertina trasmette l'idea del viaggio. La stazione, la panchina e il cappello arancione. Qual è il viaggio che stai vivendo?

«Da una vita mi trovo in stazioni e incroci che hanno fatto di questi percorsi un dedalo di incontri e dipartite. Oggi il mio viaggio lo vedo verso il sole, perché di pioggia, inerpicate e ruzzolanti discese ne ho un po' piena l'anima. Ma tranquillo, ci sarà sempre un cappello su una panchina a ricordarmi il senso dell'imprevisto».

Quando hai scritto le canzoni del disco?

«Dallo "Sceriffo del west" di 25 anni fa a "Era no mar" scritta e cantata in portoghese a ringraziare il Brasile e i musicisti che hanno partecipato - Guinga, Paixão, Nelson Faria, Rafael Barata -. Mi vergognavo un po' e volevo mettere quest'ultima come ghost track, poi il brano è piaciuto anche nel suo arrangiamento scarno ed è diventata l'undicesima traccia di "E sei arrivata tu"».

Hai già in mente il secondo disco? Resterai fedele alla linea o cambierai strada?

«Sì, sto lavorando al secondo disco. Credo che porterò sempre con me quello che i grandi musicisti mi hanno regalato e hanno regalato alla mia musica. Ma la musica, come diceva Vinicius, è l'arte dell'incontro e non puoi mai sapere chi incontrerai alla prossima stazione del tuo viaggio».


Titolo: E sei arrivata tu
Artista: Emanuele Belloni
Etichetta: Odd Times Records/Egea distribuzione
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Emanuele Belloni)

01. Come un commosso viaggiatore
02. E sei arrivata tu
03. La ballata del fuoco e l'acqua
04. Se l'amore fosse
05. Il circo
06. Lolita
07. Un sole d'amore
08. Lo sceriffo del west
09. Provateci un po' a prendermi
10. L'ultimo treno dei miei sentimenti
11. Era no mar



mercoledì 6 novembre 2013

Finaz, da Bandabardò all'album "Guitar Solo"






Da chitarrista e co-fondatore di Bandabardò (1993) alla carriera solista. Finaz, al secolo Alessandro Finazzo, ha preso la strada che molti prima di lui hanno seguito. La voglia di comunicare, di far conoscere la propria arte e le proprie idee hanno spinto il musicista di Volterra a pubblicare nel 2012 l'album "Guitar Solo", il primo disco solista in cui compare anche una splendida versione della hendrixiana "Blue Haze". Il titolo la dice lunga sul progetto che vede Finaz, armato della sua insostituibile chitarra acustica, esplorare diverse anime e generi, senza mai perdere però la propria identità e una omogeneità di fondo. Un disco che esalta il talento di Finaz, uno dei più raffinati e virtuosi chitarristi italiani.
Nel corso della sua carriera Finaz ha collaborato con molti dei più importanti artisti italiani: da Carmen Consoli a Franco Battiato, da Stefano Bollani a Daniele Silvestri, da Paola Turci a Caparezza. Intensa è stata anche la sua attività di produttore seguendo i progetti di Peppe Voltarelli, con il quale ha vinto il Premio Tenco nel 2010, Folkabbestia, Working Vibes. Senza dimenticare gli innumerevoli premi collezionati dal musicista toscano in oltre vent'anni di attività.
Finaz sarà uno dei nomi di punta dell'ottava edizione di Su la Testa, rassegna musicale organizzata dall'Associazione Culturale ZOO, che dal 5 al 7 dicembre si svolgerà al teatro Ambra di Albenga. Finaz suonerà l'ultima sera insieme ad Enrico Ruggeri, Ennio Rega e Fabio Biale. In attesa di ascoltarlo dal vivo gli abbiamo rivolto alcune domande.



Da componente di Bandabardò a chitarrista impegnato in una carriera da solista. Cosa ti ha spinto a prendere questa strada?

"E' una tipica esigenza artistica. Dopo aver suonato sempre in una band e con vari artisti del panorama italiano e internazionale, ho sentito l'esigenza e l'urgenza di cimentarmi in un confronto diretto con il mio adorato strumento. Quale mezzo migliore se non quello di presentarmi da solo con la sei corde? Una sfida personale che ho deciso di accettare e devo dire, sinceramente, ha dato più frutti di quanto sperassi".

A livello emotivo che differenza c'è a vivere questi due modi differenti di fare musica?

"A livello emotivo fa molta differenza. Anche se posso contare su una esperienza più che ventennale sui palchi di mezzo mondo, devo dire che presentarsi da solo all'inizio creava molta tensione e nervosismo. E' stato come ricominciare. Direi però che è molto stimolante. Soprattutto perché lo show che presento non si avvale di loop, parti preregistrate o basi, è tutto live, rigorosamente live: è divertente ricreare con una sola chitarra il suono di una band. Pensa che questa estate ho suonato a Pistoia Blues e quando sono sceso dal palco il mitico Robben Ford mi ha accolto dicendo: "Wow, stavo entrando nei camerini e ho sentito una band dal suono molto cool, mi sono affacciato e ho visto che eri da solo. You blew my mind". Poi non so cosa sia successo perché sono svenuto dall'emozione".

"Guitar Solo" è il tuo primo disco solista. Lo rifaresti se avessi la possibilità di tornare indietro nel tempo?

"Non ho pentimenti, anzi sto già preparando il volume due".

Nel disco rendi omaggio a Jimi Hendrix interpretando "Blue Haze"...

"Hendrix è stato e sarà per sempre il più grande innovatore della chitarra. Ogni chitarrista che si rispetti ha il dovere di rendere omaggio al genio di Seattle. È come un debito che deve essere pagato".

Oltre al tuo impegno in Bandabardò, hai prestato la tua chitarra a tantissimi artisti. Sei in grado di dirci qual è la salute della canzone italiana?

"In Italia continua a circolare molta musica di qualità. Purtroppo è il pubblico che è cambiato. Quando ero adolescente scappavo di casa la sera dopo cena per rintanarmi in qualche localino malfamato pur di ascoltare della musica live, sia che conoscessi chi suonava sia che non lo conoscessi. Puro amore per la musica e tanta curiosità. In questo momento dobbiamo cercare di rieducare gli italiani al gusto di ascoltare la musica dal vivo. Soprattutto sono contrario a tutte queste tribute band che imperversano nei locali italiani. E' chiaro che pur di suonare ti metti a replicare le canzoni di quell'artista o di quel gruppo ma a te, come musicista, non lascia niente e non fa crescere il panorama musicale italiano. Risultato: i grandi vecchi resistono e le novità ci vengono solo dai format. Per carità non sono contrario alla musica che esce dai format, dico solo che non deve essere l'unico modo per promuovere la musica".

In questo periodo sei tornato a collaborare con Peppe Voltarelli, con il quale in passato hai firmato alcuni brani e la colonna sonora di "Tatanka". Cosa state mettendo in cantiere e che rapporto c'è con Peppe?

"Con Peppe siamo entrati in studio all'inizio di ottobre per registrare il suo nuovo cd. Con lui collaboro da quasi dieci anni, come musicista e produttore, e devo dire che mi ha dato tanta soddisfazione e divertimento. Peppe è un artista libero e ti lascia libero di intervenire con la tua musicalità. Un modo molto bello e creativo per fare musica insieme. Penso che il cd, a mio parere il più bello della sua carriera, uscirà a gennaio dell'anno prossimo. Non perdetelo".

Quanta filosofia ci vuole, ricordo che sei laureato con 110 e lode, a fare il musicista di questi tempi?

"Ti dirò, quando ho iniziato il musicista era visto come un disperato che tentava la ruota della fortuna. A quei tempi tutti miravano allo stipendio fisso, all'impiego assicurato. Ti guardavano come fossi un alieno e i familiari era molto preoccupati. Adesso, vista la profonda crisi e l'incertezza, forse è uno dei pochi mestieri che quantomeno ti lascia libero di creare, di sentire, di realizzarti. Penso che la filosofia serva per chiunque in questo momento".

A dicembre sarai uno degli ospiti di punta del festival Su la Testa che da otto anni propone eventi culturali di grande qualità. Che futuro avrà la musica dal vivo?

"Come dicevo prima spero che la musica dal vivo torni ad essere un momento irrinunciabile di ogni essere umano. Spengete i televisori, i social network e tornate a bere una bella birra gelata in compagnia di buona musica sudata, vera".

I grandi della musica quasi mai hanno mai frequentato il Conservatorio eppure in Italia sembra un passo obbligato per avere maggior credito. Cosa ne pensi?

"Se fai il tuo mestiere con coscienza e impegno sei sempre rispettato. Personalmente uno dei miei migliori amici è Roberto Fabbriciani, forse il più grande flautista di musica classica contemporanea del mondo. Tra noi c'è molto rispetto e cerchiamo di collaborare sempre più spesso. Nella musica non c'è menzogna o raccomandazione che tenga, o sai suonare e comunichi qualcosa alla gente che ti ascolta o forse è meglio cambiare mestiere. Un pezzo di carta non ti assicura affluenza di pubblico o il suo gradimento".

Si narra che Springsteen, all'età di sette anni, sia rimasto folgorato dalla visione di Elvis Presley impegnato all'Ed Sullivan Show. Da quel giorno il suo unico obiettivo è stato fare il musicista. A te cosa è capitato di così folgorante da iniziare a suonare la chitarra?

"Una cosa simile. Prestarono a mio fratello un disco dei Beatles e quando lo mise sul piatto... avevo otto anni e decisi che quella sarebbe stata la mia strada".

Hai collaborato con tutti i più grandi, ma sono sicuro che hai ancora qualche nome scritto sull'agenda con cui vorresti collaborare…

"Ci sono tantissimi artisti con cui vorrei collaborare. Io amo suonare con i miei colleghi, confrontarmi, condividere. Se proprio devo spararla grossa direi sir Paul McCartney. Dubito che avrei la forza anche solo di reggere la chitarra in mano, però sarebbe godurioso, no? Stando con i piedi per terra invece devo dire che non ho nomi scritti sull'agenda. Ho suonato veramente con tanti artisti incredibili che mi hanno dato tanto e sono tutte cose spesso capitate per caso, lascio fare al fato. In questo momento, per esempio, sto suonando insieme ad Alex Britti e Fausto Mesolella, un trio nato quasi per scherzo ma quando siamo insieme su un palco escono scintille".


Titolo: Guitar solo
Artista: Finaz
Etichetta: OTRLive
Anno di pubblicazione: 2012



lunedì 28 ottobre 2013

La disincantata maturità artistica di Augusto Forin

 
Augusto Forin




Il nome di Augusto Forin è noto agli appassionati di canzone d'autore. Genovese di Sori, nato nel 1956, e con un passato da odontotecnico, Forin inizia la sua carriera musicale in ambito jazz. Prima, a cavallo degli anni '70 e '80, con il quartetto jazz-rock dei Cripta, poi fondando insieme a Marco Carbone il gruppo Jazz Insieme e infine entrando nel Louisiana Jazz Club di Genova. Ma Forin è spirito libero e artisticamente versatile e poliedrico e così suona in diverse orchestre da ballo prima di dar vita, insieme Marco Spiccio, Federico Sirianni e Fabrizio Casalino, alla Giostra dei Pazzi. Con Max Manfredi crea Le Ristampe di Tex e propone un repertorio con venature tex-mex.
Forin è però anche autore pregevole e le sue composizioni lo portano ad essere tra i protagonisti di numerose rassegne e nel 2007 è finalista al Premio Bindi. Il grande passo lo compie a inizio 2012 con la pubblicazione di "Aspirina Metafisica", il primo album di Augusto Forin. Una manciata di canzoni che esaltano la fluidità della scrittura di questo artista che trae insegnamento dai maestri della scuola genovese (Max Manfredi duetta in "Sbagliare d'autobus") e che lascia trasparire quell'amore per il jazz che non è mai sfiorito.
Abbiamo incontrato Augusto in occasione del recente spettacolo de Le Ristampe di Tex. Siamo rimasti in contatto e l'intervista che segue è il frutto di una piacevole chiacchierata.



A 53 anni hai pubblicato il tuo primo album. Quando uscirà il secondo capitolo?

«Un secondo e anche un terzo capitolo sono già in cantiere da tempo. Quello che mi scoraggia è la grave crisi che sta colpendo l'industria discografica. La musica si vende a fatica e ancora più fatica si fa con quella di autori poco noti come me. Si riesce a vendere qualche cd dopo un concerto live, sull'onda dell'emozione che si crea. Ma qui nasce un altro problema che è quello della difficoltà nel trovare situazioni che accolgano proposte originali».

Cosa ci puoi anticipare del tuo prossimo lavoro?

«Dopo l'aspirina metafisica per curare l'anima potrebbe servire una bel balsamo apotropaico per le contusioni della vita o un collirio surrealista per una visione più chiara del mondo».

Ho sentito che stai lavorando anche a un progetto che riguarda le Società Operaie di Mutuo Soccorso. Cosa ci puoi dire a riguardo?

«Si tratta di un lavoro musical-teatrale sulla mutualità e la storia delle Società Operaie di Mutuo Soccorso. L'idea di partenza è di Ivano Malcotti, poeta e scrittore geniale. Lui ha immaginato un dialogo semiserio tra due avventori di una SOMS. Questi si mettono a discutere sulle società operaie e così facendo ne ripercorrono la storia: come sono nate, come si sono organizzate, come si sono evolute. Con la regia della mia compagna Patrizia è nata una pièce teatrale; io ho scritto la musica e sono nate anche una decina di canzoni originali che si alternano ai dialoghi».

Resto sul discorso del lavoro per chiederti se gli operai e i movimenti di protesta in Italia esistono ancora?

«No, purtroppo, siamo tornati indietro: alla schiavitù! Non abbiamo le catene alle caviglie ma la nostra libertà è condizionata.Viviamo in una società che ci fa credere che il benessere stia nel superfluo: un'automobile superaccessoriata, l'ultimo telefonino, un lavoro facile dal guadagno altrettanto facile, etc. Per ottenere queste cose accettiamo uno stile di vita contro natura e dimentichiamo i veri valori».

Cosa ti ha dato "Aspirina Metafisica"?

«Alcune soddisfazioni, qualche problema, qualche debito… Sicuramente la buona accoglienza che ha ricevuto mi ha dato un po' di fiducia in più nelle cose che faccio».

Che cosa vorresti che la gente sentisse nella tua musica?

«Cosa vorrei non lo so ma mi piace quando qualcuno mi racconta cosa ci ha sentito. Molto spesso mi fanno notare delle cose che neppure sospettavo di averci messo: ‹In quella canzone quando dici... è chiaro che intendevi...›. Naturalmente quando ho scritto quella frase pensavo a tutt'altro. Questo è il bello!».

Intanto, insieme ad amici come Davide Baglietto, Jacopo Marchisio, Sandro Signorile, stai portando in giro nelle piazze e nei teatri lo spettacolo "Le ristampe di Tex e il liquore di Mefisto", con ottimi riscontri. Come è nata questa idea?

«Le Ristampe di Tex sono nate un bel po' di anni fa. Il nome l'ho ideato io e la prima formazione vedeva insieme a me Sandro Signorile, Max Manfredi, Marco Spiccio e Nino Andorno. Abbiamo fatto qualche serata ma poi la cosa è morta lì. L'anno scorso riparlandone con Sandro ci siamo detti: ma perché non rispolveriamo le Ristampe? Detto fatto. C'era l'occasione di presentare una canzone originale in genovese per musicare un video sulle ceramiche di Albissola: per questo progetto abbiamo coinvolto l'amico Marco Cambri. Quasi di getto è nata "Motto de tera" e l'abbiamo presentata come Ristampe di Tex. La canzone è piaciuta ed è diventata la colonna sonora di quel video. Così sono rinate le Ristampe e dopo qualche rimpasto siamo arrivati alla formazione attuale. Ma ti sei dimenticato di citare Dario Camuffo, bravo cantante e Patrizia Litolatta Biaghetti che è la "donna medicina" nello spettacolo, la nostra regista e insieme a Sandro autrice dei testi».

Sostieni di non sentirti un cantautore, eppure le tue canzoni ti collocano in questa categoria...

«Chiaro che quando uno le canzoni se le scrive e se le canta è un cantautore. Ma è anche vero che io non mi riconosco nella categoria perché mi sta stretta. Mi piace scrivere musica; se ci metto le parole diventano canzoni ma la mia produzione è soprattutto musicale. Ecco sono uno dei pochi casi che può rispondere a quella stupida domanda se nasce prima la musica o le parole. Io parto quasi sempre da un motivo musicale. Questo perché le mie prime composizioni le ho realizzate per un gruppo di jazz progressive, il Quartetto Cripta; sto parlando di 35 anni fa! Il Quartetto Cripta esiste ancora e io continuo a comporre e a suonare il basso con loro».

Qualcuno dice che per essere artisti si deve essere, almeno in parte, pazzi. Tu lo sei?

«Se essere pazzi vuol dire non essere conformisti, non accettare prodotti confezionati e premasticati, non perdere la curiosità, non nascondere i propri sentimenti, lottare per quello che si crede giusto e non aver paura di confrontarsi: allora lo sono».

Ti piace la musica di oggi?

«Esiste una musica che ti cattura: non so se sia di oggi o di ieri. Ti confesso che non sono molto aggiornato sulle novità discografiche. Troppo spesso quello che viene spacciata come musica di oggi è un triste deja ecouté. Ascolto molto la radio, ma la mia è sintonizzata solo su Radio3 e mi trovo a mio agio ascoltando dalla lirica alla sperimentale. Hai mai seguito "Battiti" dopo la mezzanotte? A volte trasmette della roba che se sei in macchina e stai guidando puoi vivere la netta sensazione che si sia rotto qualcosa nel motore… Beh, se quella è la musica di oggi a me piace!».

I liguri sono conosciuti per la loro riservatezza, per la capacità di tenere le emozioni per sé come si trattasse di oggetti preziosi. Eppure la Liguria è terra di grandi cantautori, come è possibile?

«Il carattere dei liguri è sicuramente un carattere chiuso. Le emozioni le tengono dentro, le conservano come cose preziose. Poi, come fossero ingredienti per una ricetta le elaborano e le ricombinano per riproporle. Lo stesso procedimento che caratterizza la cucina ligure. Tutti i piatti qui sono confezionati per sfruttare al massimo le risorse ma anche per durare affinché il marinaio potesse nutrirsi nelle lunghe lontananze da terra. A questo aggiungi, per insaporire, la caratteristica disincantata di tutti i liguri, quell'ironia che diventa un'arma tagliente. Ecco questo credo sia il segreto della "scuola genovese": elaborare, combinare, conservare, ironizzare».

Scrivere canzoni e un intero album a cinquant'anni è più semplice o più complicato rispetto a quando si è giovani?

«Più difficile perché devi fare i conti con il disincanto che accompagna l'età matura. Insomma a vent'anni sei sicuro di poter cambiare il mondo a cinquanta sai per certo che non ci riuscirai. Comunque ci provi lo stesso e, tornando alla domanda di prima, forse la vera pazzia sta in questo».

Per il tuo primo disco hai creato una confezione extra lusso, pensi che in questo modo l'oggetto disco sia più ambito e ricercato?

«In realtà non era una confezione extra lusso. La mia idea era quella di replicare la magia di una bella copertina 31x31 tipica dei vinili. Metà dei dischi che possiedo li ho acquistati solo perché mi piaceva la copertina, spesso neppure conoscevo l'artista o il gruppo che stavo comprando. In quel modo mi sono imbattuto in meravigliose scoperte come gli Yes, King Crimson, Gentle Giant e altri. Ascoltavo la musica con lo sguardo immerso in quelle opera d'arte. Colpa del formato dei cd, quel misero librettino 12x12 ha smesso di farmi sognare».

Lo farai anche per il prossimo?

«Ho pensato a una bella stampa 40x60 con una cornice in radica ma l'idea mi è stata sconsigliata. Ripiegherò su una classica confezione in legno, tipo cassetta per il vino o in metallo tipo litolatta molto più pratica».



Titolo: Aspirina Metafisica
Artista: Augusto Forin
Etichetta: Gutenberg Music/Primigenia
Anno di pubblicazione: 2012

Tracce
(testi e musiche di Augusto Forin)

01. Amanti distanti
02. Scusa
03. L'oriente del nord
04. Una questione di educazione
05. Vagon lit
06. Sbagliare d'autobus
07. Passeggiando
08. Scarpe rotte
09. Aspettando su una pensilina
10. Il tempo perso
11. Quello che manca



mercoledì 23 ottobre 2013

"Quizás", la pentola magica di Gerardo Balestrieri







"Quizás", il quarto album di Gerardo Balestrieri, è una pentola magica da dove pescare ricordi, suggestioni, emozioni e ritmo per ballare e muovere anche e tacchi. Un disco variopinto, pieno di citazioni ma non per questo noioso e ripetitivo. Anzi, a farne un album appassionante è proprio il susseguirsi frenetico e il passaggio continuo tra generi, dal folk al blues, dallo swing al western, fino a toccare ritmi balcanici e sud americani. Un pot-pourri intrigante e suggestivo, da festa popolare e da balera in cui Balestrieri gioca con la voce scura e pastosa senza perdere di vista il ritmo. Diciotto tracce, ventisette motivi, in cui Balestrieri si diverte a omaggiare Tom Waits, Paolo Conte, Fabrizio De Andrè, Gardel, Serge Gainsbourg, la tradizione popolare italiana, il compositore ceco Jaromír Vejvoda e il cubano Osvaldo Farrés. L'album ha ricevuto il giusto riconoscimento conquistando il secondo posto nella categoria "Interpreti" all'ultimo Premio Tenco.
Gerardo Balestrieri non si può considerare un artista emergente. Il suo curriculum è ricco e si divide tra musica e teatro. Negli anni Novanta con La Nave dei Folli ha inciso il disco "Fricco misto", ha partecipato ad Arezzo Wave '96, ha stretto collaborazioni artistiche e discografiche con Daniele Sepe e Bebo Storti. Poi il primo invito al Premio Tenco nel 2000, l'esordio discografico a suo nome con "I nasi buffi e la scrittura musicale" nel 2007, seguito due anni dopo da "Un turco napoletano a Venezia" e nel 2010 da "Canzoni al crocicchio".



Gerardo, "Quizás" è il tuo quarto album. Come è nato e quali sono state le idee che ti hanno portato a produrlo?

"Quizás è nato durante un periodo di stasi discografica. Nell’attesa di capir meglio le sorti delle mie canzoni inedite, ho inciso questo disco in veste d’interprete, canzoni che nel tempo mi hanno sedotto e accompagnato". 

Da "Rosamunda" a "Bocca di Rosa" passando per Conte, Waits, Carosone e Gardel. Come si fa a unire tutto in un unico disco, le cui canzoni peraltro non sono slegate tra loro?

"E' il ritmo l’elemento che unisce le canzoni dell'intero disco. L'album è stato pensato come un concerto, dall'inizio al gran finale, compreso anche di bis". 

Per dar vita a questo patchwork, più affine a certa produzione cantautorale d'oltralpe, hai scelto di cantare in diverse lingue. Perché lo hai fatto?

"E' una scelta naturale. Si tratta di una visione cosmopolita della musica dove il suono della parola incontra e abbraccia il linguaggio musicale". 

Le canzoni che interpreti nel disco le hai scelte perché sono le tue preferite?

"Ovviamente, ma non ne farei una hit parade che escludesse ad esempio i Led Zeppelin o Jimi Hendrix". 

In copertina si legge "Canzoni per anche ed orecchie, per ricci, per pance e per tacchi". E' questo lo scopo delle canzoni del disco?

"E' un sottotitolo che rimanda a canzoni da ballare e da ascoltare, canzoni con cui divertirsi e anche pensare. Un invito all'attenzione e alla leggerezza". 

Prima "I nasi buffi e la scrittura musicale", poi "Un turco napoletano a Venezia", le canzoni al crocicchio per il terzo album e infine "Quizás". I tuoi cambi di rotta artistici sorprendono ma allo stesso tempo hanno un filo conduttore marcato…

"C'è un filo conduttore che tiene insieme ogni canzone dei dischi citati, come anche ogni brano è concepito come un singolo. Più o meno, mi vien da pensare, come dovrebbe essere l'umanità. Se penso ai progetti futuri - non proprio imminenti ma diciamo da qui al prossimo quinquennio - vi trovo invece molte più sorprese riguardo ai cambi di rotta".

Mi ha incuriosito la tua scelta di proporre "Rosamunda". Siamo quasi coetanei e io me la ricordo cantata da mio padre in macchina, in occasione delle gite della domenica. Tu a che ricordi la associ?

"Per me non è un ricordo, altrimenti mi sentirei vecchio, è una realtà che dura da quando sono nato. L'ho suonata la prima volta quando ero bambino e continuo a farlo adesso che lo sono ancora. "Rosamunda" rappresenta l’ultimo ballo di certi matrimoni - da bambino fino alla maggiore età ho suonato in gruppi di non solo liscio - un'impresa guidata fino alla consacrazione finale dell'incontro. E’ la canzone che apre alla notte, fatta di serenate al balcone". 

In questo caso però l'hai interpretata con una frenesia finale quasi punk.

"Per una certa attitudine verso l’evoluzione della tradizione, una sera mi è venuta di suonarla punk - non eravamo ad un matrimonio - e poi da lì è stata incisa". 

Il medley "Bocca di Rosa/Montemaranese/Fimmene Fimmene" è spiazzante. Come hai fatto a legare il sound desertico e acido di "Fimmene Fimmene" con la liricità di "Bocca di Rosa"?

"Semplicemente suonando, il "trittico" è arrivato da solo. I suoni li avevo chiari in mente. Durante alcuni concerti le canzoni son come le ciliegie, soprattutto quando il pubblico vuole ballare". 

Perché ami definirti cantante apolide, senza patria?

"Arrivo alla visione cosmopolita della musica anche da un'apolide condizione umana. Vicissitudini esistenziali mi hanno fortunatamente portato a non appartenere". 

Sei nato in Germania, a Remscheid l'11 giugno del 1971, hai vissuto a Napoli e ora a Venezia. Quanto c'è in te di queste tre realtà così diverse dal punto di vista umano, della società, dell'arte e della musica?

"Mah, ironizzando della Germania mi è rimasta solo l’origine del nome, che mi pare tradotto in italiano sia "bravo con la lancia". La città che più ho addosso e dentro al cuore è Napoli". 

Non hai mai pensato di trasferirti in Francia, nazione molto più attenta a certa musica di qualità?

"Ho vissuto in Piemonte e qualche mese a Marsiglia. Ho pensato di trasferirmi in Francia e ogni tanto ci ripenso. Se ancora non l'ho fatto è perché probabilmente non è il momento". 

Sei reduce dal Premio Tenco. Quest'anno, nella categoria Interpreti, hai trovato sulla tua strada Mauro Ermanno Giovanardi. Come hai accolto il secondo posto?

"Più che sulla mia, di strada Giovanardi ne ha percorsa più che il sottoscritto. E spesso è normale che se hai fatto più strada arrivi prima. Per "Quizás", un secondo posto, considerati i mezzi, è come aver vinto la Targa Tenco". 

Non è la prima volta che partecipi al Tenco e non è la prima volta che arrivi secondo. Cosa pensi della rassegna sanremese?

"E' la mia terza partecipazione ed è anche la terza volta che arrivo secondo. Pensando al medagliere, l'argento è il metallo che amo di più. L’oro e il bronzo non mi piacciono. Della rassegna penso che sia un bel momento per la musica in Italia ed è anche un ottimo posto per arrivare secondi". 

Nei prossimi mesi hai in programma un tour per promuovere "Quizás"?

"In questi giorni suono a Firenze al Porto di Mare e a Roma al Teatro Arciliuto, a metà novembre sarò a Verona. Ci stiamo attrezzando anche per suonare oltralpe e oltre oceano. L’idea è di tornare in California e poi fare tappa in Francia, Belgio, Svizzera e Olanda". 

A quanto so verrai a suonare anche in Liguria a inizio 2014...

"Sì, sarò a La Claque di Genova il 6 febbraio. Non ho mai suonato a Genova e chissà che non diventi una serata speciale. Vi aspetto tutti".  


Titolo: Quizás
Artista: Gerardo Balestrieri
Etichetta: Interbeat/Egea Distr.
Anno di pubblicazione: 2013






lunedì 14 ottobre 2013

"Post-Krieg", l'epitaffio di Simona Gretchen





C'è sempre una fine ma quando arriva troppo presto si rimane spiazzati. La decisione della faentina Simona Darchini, classe '87, di dare un taglio al passato e chiudere l'avventura targata Simona Gretchen, dopo solo due dischi, arriva inaspettata. Anche perché "Gretchen pensa troppo forte", album d'esordio uscito nel 2009, era finito sotto i riflettori della critica specializzata e il successivo "Post-Krieg", uscito a febbraio di quest'anno, ha dato ulteriore credito a questa artista. "Post-Krieg" è un disco cupo dove la luce entra di rado, fatto di canzoni spesso legate tra loro, con echi che rimandano al prog e al krautrock ma anche pieno di idee e soluzioni che ne fanno uno dei dischi più interessanti dell'anno. Otto tracce che danno uno schiaffo forte a tutta quella produzione fotocopia, senza idee e senza nerbo, che sta soffocando il panorama musicale italiano.
L'ispirazione, l'energia e il carisma a Simona, Gretchen o Darchini che chiamar si voglia, non mancano ed esplodono dirompenti in questi ventisei minuti di musica, emozioni, allucinazioni e cadute agli inferi. Un lavoro a tratti anche scomodo ma che non cade, fortuna vuole, in certo intellettualismo fine a se stesso. Un epitaffio artistico, scritto con lucida disperazione, che chiude un ciclo di crescita personale. Cosa riserverà il futuro non è dato saperlo. Addio Simona Gretchen, benvenuta Simona Darchini.


"Post-Krieg" è il tuo secondo album, l'ultimo di Simona Gretchen. Un disco che resterà, alla faccia della produzione usa e getta che imperversa in questi anni. Diverso per certi aspetti, molto meno cantautorale rispetto al tuo album d'esordio…

«Sono d'accordo. Molto diverso, nella sua genesi, nei riferimenti musicali e letterari, negli arrangiamenti e nelle atmosfere. Decisamente più cupo, pesante e "denso", più compatto a livello sonoro e contenutistico, meno sognante».

Perché finisce l'esperienza di Simona Gretchen?

«Perché il fine dell'esperienza Simona Gretchen era "Post-Krieg"».

Dopo un disco come questo viene naturale chiederti di ripensarci…

«Non penso ci sia qualcosa che possa farmi cambiare idea». 

Cosa c'è allora nel futuro di Simona Darchini?

«Molto studio. E non parlo di musica. Continuerò poi a occuparmi della Blinde Proteus. Non so
ancora se prenderò in futuro parte a qualche altro/a progetto/band. Non ho le idee chiare in proposito, né ho fretta di prendere decisioni. In ogni caso non si tratterebbe in nessun modo di una prosecuzione dell'esperienza "Simona Gretchen"». 

Il disco si apre con un intro declamato da una voce femminile in tedesco che lancia l'ascoltatore verso un mondo fatto di oscurità, condito da brani a cadenza marziale e ritmi ipnotici. L'idea del conflitto è evocato alla perfezione ma quale guerra racconti?

«Quella dei "princìpi", in senso artaudiano. Il conflitto interiore di chi è scisso fra nature opposte. I concetti chiave dell'album sono senza dubbio questa "guerra dei princìpi" e il concetto di "fine", in senso lato. Il fatto stesso si tratti dell'ultimo album di Simona Gretchen non è scollegato rispetto a questi aspetti».

Morte e desolazione o rinascita e vigore nel tuo dopoguerra?

«Hai mai visto un dopoguerra che non faccia rimpiangere la guerra? Io sono a pezzi, ma non me ne curo: niente è per sempre. Non credo nelle rinascite, ma credo (ci) si possa migliorare. Le terre desolate sono forse il miglior luogo tanto per spegnersi quanto per ri-programmarsi».

Quali sono stati e come hanno contribuito i tuoi compagni di viaggio alla nascita di questo disco?

«Il disco è stato registrato al Lotostudio, di Gianluca Lo Presti. Paolo Mongardi ha arrangiato e registrato le parti di batteria, Nicola Manzan ha arrangiato e registrato gli archi di "Enoch" e "Everted (part II)", Sabina Spazzoli, attrice/regista teatrale, ha prestato la voce agli inserti di "In" e "Everted (part III)" in lingua tedesca, Silvia Valtieri, che mi accompagna anche nei live, ha registrato le parti di pianoforte, e Lorenzo Montanà, oltre ad aver registrato alcune tracce di chitarra, ha curato la produzione artistica dell'album».

"Post-Krieg" si chiude con le tre parti di "Everted", una mini suite che rimanda a certo rock progressive…

«È una "discesa" finale, una suite tripartita che racchiude, in un certo senso, la chiave del disco. "Everted" procede dall'esterno verso l'interno (il mio), e, come suggerito dal titolo, fa riferimento al concetto di "estroflessione". Certi progressive e kraut rientrano nelle influenze dell'album, e la trilogia "Everted" è la parte del disco in cui emergono maggiormente».

"Post-Krieg" è un disco di breve durata rispetto a quasi tutte le produzioni attuali che superano abbondantemente l'ora. Penso che sia però al passo con la frenetica società attuale, cosa ne pensi?

«La mia esigenza era di tagliare tutto ciò che potesse risultare superfluo. Per questo i tempi della stesura iniziale sono stati irrisori rispetto alla fase di elaborazione successiva. Almeno metà del 2012 è volata via rimaneggiando il disco. Togliendo, ben più che completando».

Nel 2010 sei stata inserita nel doppio cd "La leva cantautorale degli anni zero" con la canzone "Krieg". Qual è il rapporto tra quella canzone e il tuo ultimo disco?

«Mentre scrivevo "Krieg" avevo già un'idea embrionale di "Post-Krieg", mi riferisco qui al disco, non alla traccia omonima. Intitolare così quel brano era una sorta di gioco concettuale: un disco intitolato "Post-Krieg" sembrerebbe consequenziale ad un brano, precedentemente pubblicato, intitolato "Krieg"... In realtà era "Krieg" a far riferimento a "Post-Krieg", benché l'album non fosse ancora stato scritto».

Cosa è rimasto di quella leva cantautorale?

«In me poco, sto guardando da un'altra parte. Già allora stavo guardando altrove, tant'è che in testa avevo quest'ultimo disco, che di cantautorale non ha praticamente nulla».

Con "Gretchen pensa troppo forte" sei finita sotto la luce dei riflettori, hai ricevuto riconoscimenti e critiche molto positive. Come consideri, alla luce delle esperienze fatte in questi anni, il tuo disco d'esordio?

«Vorrei non averlo pubblicato. Non così, se non altro. Ci sono una serie di cose che non ho curato come avrei voluto. Alla fine ne è uscito qualcosa che molti hanno apprezzato, ma che non realizza il suo potenziale, e che, di fatto, non mi convince. Sbagli miei, si intende, senza voler dare colpe a nessun altro. Discorso opposto potrei fare per "Post-Krieg", di cui sono fiera e a cui potrò pensare con soddisfazione anche in futuro».

In questo arco di tempo hai dato vita anche a una tua etichetta. Perché questa scelta e quali sono i tuoi progetti?

«Blinde Proteus è nata nel 2012, ma nella mia testa molto prima. Ho coinvolto musicisti che stimo particolarmente, che spesso conosco di persona. L'idea è di lavorare a progetti in cui credo totalmente, su dischi cui tengo come fossero miei. Questo crea i presupposti per dedicarle tempo e un certo entusiasmo. Si occupa soprattutto di derive, preferibilmente sperimentali, di hardcore/post-core/stoner/post-jazz/psichedelia».

Pensi che ci sia abbastanza follia nei musicisti moderni?

«Mi piacerebbe vederne molta di più. Mi piacerebbe incontrare più gente sopra le righe, e più dischi in grado di lasciare un segno, anche se piccolo, invece di album in serie di cui spesso si conoscono perfettamente in anticipo riscontri e pubblico di riferimento. Sui palchi vorrei più sciamani e meno musicisti-contabili. A te piace il fatto che l'indie italiano stia diventando quello che, sociologicamente, hanno rappresentato i programmi TV a partire dagli anni Ottanta? I più si stanno lasciando convincere che una cosa di cui si parla molto debba per forza essere anche degna di interesse. Artisti e operatori culturali non dovrebbero dissociarsi rispetto a questo stato di cose, o per lo meno fare il possibile per produrre antidoti? Le schegge impazzite potrebbero essere i migliori anticorpi rispetto a quel livellamento di gusto/interesse di cui la rete stessa è risultata, a conti fatti, tutto meno che una cura. Credo servano, allo stesso tempo, più follia e più consapevolezza».

A ottobre si è celebrato il Premio Tenco, cosa ne pensi di questa rassegna e in generale dei concorsi?

«Del Premio Tenco ho solo sentito parlare. Risponderei senza cognizione di causa, in quanto non ho mai vissuto dall'interno la rassegna, né ho potuto assistervi. Ammetto, rispetto invece ai concorsi che ho visto da vicino, di non conservare i migliori ricordi».


Titolo: Post-Krieg
Artista: Simona Gretchen
Etichetta: Disco Dada/Blinde Proteus
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Simona Gretchen)

01. In
02. Post-Krieg
03. Hydrophobia
04. Enoch
05. Pro(e)vocation
06. Everted (part I)
07. Everted (part II)
08. Everted (part III)




sabato 21 settembre 2013

"Di cosa parliamo" con Giorgia del Mese





Giorgia del Mese l'abbiamo scoperta tre anni fa grazie alla sua partecipazione al progetto discografico "La leva cantautorale degli anni Zero", doppio album, promosso da Club Tenco e Mei, che ha raccolto brani inediti di giovani cantautori degli anni 2000, sotto etichetta AlaBianca Records. L'anno dopo, nel 2011, Giorgia del Mese si è presentata al grande pubblico con il suo primo disco, intitolato "Sto bene", che le è valso l'invito al Premio Tenco. Pochi giorni fa, precisamente il 16 settembre, la cantautrice di origine salernitana ma fiorentina di adozione, è tornata a far parlare di sé con l'album "Di cosa parliamo". La voce energica, la scrittura incisiva e i testi carichi di pathos mettono in luce le indiscusse qualità di questa artista. Le dieci tracce dell'album catturano l'attenzione riuscendo ad appassionare sia nei momenti delicati che in quelli più rock e decisi. 
Un gran bel disco, impreziosito dalle collaborazioni con artisti protagonisti della scena indipendente italiana come Paolo Benvegnù, che ha duettato con lei nel brano "Imprescindibili" che chiude il disco, come Alessio Lega e Fausto Mesolella degli Avion Travel in "Agosto", come Alberto Mariotto di King of the Opera in "Stanchi" che apre l'album. Il disco è prodotto da Andrea Franchi, già al fianco di Benvegnù, Marco Parente e Alessandro Fiori.
A pochi giorni dall'uscita del disco, abbiamo parlato con Giorgia che ci ha raccontato come è nato "Di cosa parliamo".




Per il tuo secondo disco ti sei fatta aiutare dai tuoi fans. La raccolta fondi attraverso Musicraiser ha dato ottimi frutti superando la cifra che avevi fissato. Pensi che per i musicisti emergenti sia la soluzione migliore per poter produrre dischi?

«Sì, credo sia una possibilità, almeno per iniziare ad avviare la produzione. Inoltre ti permette di avere la restituzione dell'approvazione e dell'appoggio dei tuoi fan, ma questa è una parola assurda per una come me». 

Se non avessi raggiunto la cifre fissata avresti comunque inciso il disco?

«In qualche modo sicuramente, con grossi investimenti e sacrifici economici ma quando fare un disco diventa una priorità tutto il resto va in vacanza, tranne tu che l'hai fatto». 

In "Di cosa parliamo" hai collaborato con Paolo Benvegnù, Alessio Lega, Alberto Mariotti, Fausto Mesolella. Cosa hanno apportato al disco?

«Ho sempre avuto la voglia e la necessità di confrontarmi con altri musicisti, un po' per insicurezza e un po' per professionalizzare maggiormente il lavoro. Anche nel primo disco, "Sto bene", è stato così: uno su tutti Bruno Mariani, che è il produttore di Bersani e Carboni. Per quanto riguarda gli ospiti del nuovo disco posso dire che con alcuni ho avuto un innamoramento artistico: ci siamo conosciuti in giro, ho fatto ascoltare loro i miei provini, mi sono messa una bella faccia tosta e sono nati dei regali bellissimi. Avere questi nomi nel disco mi ha riempito di orgoglio e li ho ringraziati da fan più che da collaboratrice». 

Voce energica e dal registro basso che dà un tocco molto più rock rispetto al tuo primo lavoro, non credi?

«Sì, è stata una scelta artistica nata anche dal confronto avuto con Paolo Benvegnù. E mi riconosco molto in questo registro». 

Mi pare di scorgere in questo disco una tua urgenza di comunicare. È così?

«È un disco che nella scrittura è nato in pochissimi mesi. Non abbiamo dovuto fare una scelta perché non c'erano altri brani all'infuori di quelli poi pubblicati ma ero sicura di volermi mettere alla prova con questa sintesi». 

C'è un messaggio di fondo che lega le canzoni di questo disco?

«Questo è quasi un concept-album, molto semplicemente il funerale di un modo di essere di sinistra che prevedeva dei punti fermi: l'antimilitarismo, la solidarietà sociale, l'antirazzismo, il rigore, la serietà. Tutti riferimenti ideologici dai quali ci si è disinvoltamente licenziati smettendo di essere persone serie». 

Quanto c'è di autobiografico nelle canzoni di questo tuo ultimo lavoro?

«Tutto è autobiografico ma non autoreferenziale e solipsistico. La capacità di generalizzare e di rendere un pensiero personale condivisibile è per me una priorità, altrimenti si diventa noiosi, ci si lamenta, si scrive d'amore in modo retorico, si perde il senso del contesto». 

Nel disco riproponi "Spengo", brano che, seppur in versione differente, era stato pubblicato nella raccolta "La leva cantautorale degli anni Zero". Perché hai voluto dare nuova giovinezza a questa canzone?

«Perché quando l'ho inserito nella leva cantautorale era un brano ancora troppo giovane. Con un po' di anni in più e con la produzione fantastica di Andrea Franchi è diventata matura». 

Cosa hai voluto rappresentare con la copertina?

«Sembra ermetica e la grafica di Simone Vassallo è bellissima, ma la spiegazione è essenziale e quasi scolastica: il fondo nero della decadenza con un papavero rosso che è la rivolta, il cambiamento, la rinascita-rivoluzione». 

Secondo te cosa è rimasto della Leva cantautorale degli anni Zero?

«Abbastanza, a parte i nomi contenuti nella compilation. L'intento importante era dare dignità e luce a un cantautorato emergente che è ricchissimo, a volte esageratamente, però in alcuni casi valido, in altri veramente interessantissimo». 

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

«Gli "anziani", Bennato, De Gregori, e poi Silvestri, Carboni, e i gruppi anni '90 come Marlene Kuntz, Almamegretta, Csi». 

Giorgia, negli ultimi anni è mancata sulla scena un cantante in grado di afferrare il testimone di artiste sbocciate negli anni novanta come Cristina Donà o Carmen Consoli. Ti senti pronta?

«Ma no! Primo perché peccherei di una presunzione senza assoluzione, e poi perché gli anni novanta erano diversi. Ora c'è una costellazione di realtà artistiche anche importanti che però si muovono in uno spazio molto più ristretto. Però grazie per avermelo chiesto!». 

Nel 2011 hai partecipato al Premio Tenco. Cosa pensi della rassegna sanremese che da alcuni anni si dibatte tra seri problemi economici, tentativi di espatrio e cambi di sede?

«Il Premio Tenco è ed è stato la meta più ambita per ogni cantautore, chi lo snobba è perché è incazzato per non essere stato invitato! Detto questo non sempre il cast è rappresentativo di quello che si agita sulla scena contemporanea. Però resta un punto di riferimento e io sono molto grata al Club Tenco, in particolare a Enrico de Angelis che mi ha seguita e sostenuta fin dagli esordi».


Titolo: Di cosa parliamo
Artista: Giorgia del Mese
Etichetta: Radici Music
Anno di pubblicazione: 2013




mercoledì 11 settembre 2013

Bobo Rondelli, "A famous local singer"





Livornese, istrionico, irriverente, cantante appassionato e un po' "cialtrone", nonché straordinario imitatore di voci e performer coinvolgente. Bobo Rondelli è tutto questo, dall'esordio negli anni Novanta con il trio Les Bijoux, ai primi successi con l'Ottavo Padiglione, fino all'inizio della carriera solista nel decennio successivo e l'esperienza nel cinema. Un percorso artistico mai scontato che ha visto Rondelli collaborare con Stefano Bollani, Dennis Bovell e Filippo Gatti in ambito musicale, con Paolo Virzì sul grande schermo. L'ultima fatica discografica, l'album "A famous local singer", è un poetico progetto brass&roll prodotto da Patrick Dillett (già produttore di David Byrne e St. Vincent, e collaboratore tra gli altri di Brian Eno, The National, Glen Hansard) e nato dall'incontro con l'Orchestrino (Dimitri Grechi Espinoza sax tenore e sax alto, Filippo Ceccarini tromba, Beppe Scardino sax baritono, Tony Cattano trombone, Daniele Paoletti e Simone Padovani percussioni,
 Fabio Marchiori tastiere), potente e coinvolgente marching band che lo accompagna nella rilettura dei classici della sua produzione e nella presentazione dei brani nuovi dell'ultimo album e di imperdibili cover. Un incontro scanzonato tra blues, jazz, swing e ritmi afro-cubani che non fa restare indifferente l'ascoltatore.
Abbiamo incontrato Bobo e ci ha spiegato come si fa a essere un "famous local singer".



Da cantautore malinconico a compagno di strada dell'Orchestrino. Una bella trasformazione artistica, non credi?

«La musica è un viaggio, un itinerario. Per me il senso è sempre stato questo: ho fatto dischi diversi a seconda degli incontri. Per esempio, con Bollani ho puntato su sonorità più jazzistiche, con Dennis Bovell sul reggae, con Filippo Gatti su uno stile più intimista e malinconico, come hai detto tu. Con l'Orchestrino c'è stata la voglia e l'intenzione di scendere in strada. È un gruppo che può suonare senza elettricità essendo formato da fiati e percussioni e quindi, anche per andare incontro alla crisi, si trova sempre il modo di esibirsi, quasi fossimo una band di New Orleans».

Hai lasciato da parte le canzoni più introspettive per puntare deciso sul divertimento. Vista la situazione politica ed economica, pensi che sia la ricetta giusta per ridare il sorriso al tuo pubblico in questi tempi bui?

«Oltre al sorriso e al divertimento mettiamoci anche un po' di ballo e di espressività del corpo. Ci può essere un po' tutto questo e soprattutto la voglia di fare baldoria. È un progetto che nasce suonando per strada e lo spettatore è anche quello che passa per caso. Può succedere che la sua vita cambi sentendoci suonare. Un ragazzino che passa e vede suonare un sax, un trombone e un tamburo può essere stimolato a suonare a sua volta, ad avvicinarsi alla musica. Suonare porta le persone ad approfondire la conoscenza della propria anima e a non vivere di cose materiali. La musica stimola a una rivoluzione interiore e comunque chi vive di parole e di musica non si metterà mai con il fucile dalla parte di chi spara».

Perché l'idea di ripescare alcuni classici di Celentano? Ti vedrei bene nel Clan…

«Nel Clan penso ci fosse questo bello spirito di condivisione, unito da questo rock'n'roll. "24.000 baci" ha una forza tutta sua, ci sono quei quattro 'ye ye', superiori secondo me a quelli dei Beatles. Poi noi l'abbiamo fatta con questo sapore un po' balcanico, ispirati dal film di Kusturica. L'idea era quella di far cantare a un ragazzo dell'est "24.000 baci". L'altra, "Bimbo sul leone", è proprio una bella canzone, un pezzo tipo Mission Impossible, uno 007, sembra quasi un'Arca di Noè che si svolge in cielo invece che in mare».

Da dove nasce il titolo "A famous local singer"?

«Un po' di anni fa ho scritto una canzone su un orso, Gigi Balla, chiuso in un gabbia dello zoo di Livorno. Ne ho fatto un quadro malinconico, poetico. Successivamente, passando davanti allo zoo ho notato che avevano messo un cartello, di quelli turistici, con scritto in italiano ‹il famoso cantautore Bobo Rondelli che ha cantato la storia dell'orso Gigi Balla...›, in inglese io sono diventato "A famous local singer" e l'orso "A famous local bear". Fa ridere, è una frase bella perché ambigua: sono un famoso cantante del luogo o un cantante famoso del luogo? Ecco, penso più a quest'ultima: sono un cantante famoso del luogo».

La soglia dei 50 anni è stata superata. Cosa possiamo aspettarci da Bobo Rondelli nei prossimi anni?

«Non lo so, non mi pongo la questione dello scorrere del tempo. Probabilmente si tende a essere più riflessivi, spero meno vanitosi... spero che la vanità sia un passaggio, un andare oltre, un cercare di sparire dentro la vita. Ti posso dire una frase che da cinquantenne ho scritto l'altro giorno e che dice: ‹il tempo che mi resta voglio morirmelo come mi pare e piace›. Voglio morirmelo non viverlo perché vivere è presuntuoso, ogni attimo si muore e dopo cinquant'anni c'è questa bella accettazione di morire il momento. Vivere alla giornata, vivere i progetti, quello che dovevi fare l'hai fatto, puoi solo regalare, far del bene con la tua esperienza e saggezza. Sicuramente c'è anche più spiritualità perché avvicinandosi la fine effettivamente il morire fa più paura».

Ritmi klezmer, una sapiente fusione tra jazz e blues. Ritmi alla Bo Diddley in "Il cielo è di tutti", chi ha contribuito a questo mix esplosivo?

«A contribuire è stato il gruppo stesso, l'Orchestrino. Sono jazzisti che sanno suonare in mezzo alla gente e hanno la capacità di intrattenere mantenendo alta la qualità. Nel disco c'è un po' di tutto, non ci siamo posti il problema del genere. È più un sound quasi da balera, c'è anche un pezzo cubano».

Non mancano le canzoni goliardiche e irriverenti come "Puccio Sterza"…

«È un rock'n'roll sulla storia di un incidente automobilistico stradale e sessuale. In città c'è questa scritta, 'Puccio sterza', che viene regolarmente cancellata ma che con il tempo ricompare. Probabilmente questo Puccio picchiò con l'auto contro il muro e così nella canzone ho pensato che fosse uno che andava a cercare incontri notturni ed essendo uno importante provano sempre a cancellare il nome. Magari è un commissario, non si sa, qualcuno di importante, un politico».

"Che gran fregatura è l'amor" è il titolo di un'altra canzone del disco. È la tua idea dell'amore?

«Alle volte sì, dipende. Sai sull'amore ne parliamo in continuazione, una volta dici una cosa poi la rinneghi il giorno dopo. A volte, in modo volgare, gli uomini dicono che le donne sono tutte troie e così anche le donne dicono che gli uomini sono tutti stronzi e bastardi. Dipende dal momento, però più che l'amore dovrei dire che gran fregatura è l'infatuazione. Poi l'amore va sempre rinnovato, l'amore non è uno scherzo di uno che vive la vita in modo dannunziano. La canzone è un po' uno scherzo, cantata con la voce impostata che ricorda un po' gli anni '30 e che, a un certo punto, recita ‹...che palle stare insieme a te...›. È un gioco surreale di epoche sbagliate, con parole ed espressioni che non si sentivano in quegli anni».

Recentemente hai suonato al Campeggio Resistente a Valloriate a Cuneo. Resistere è l'unica soluzione che ci è concessa?

«A sentire questo Papa, che francamente non mi dispiace, bisogna resistere alle tentazioni di possedere troppo, più del dovuto per certi, resistere per arrivare a fine mese, resistere dal vivere una vita troppo finta comandata da computer, internet, facebook. Bisogna riappropriarsi invece dello stare insieme, resistere meno e vivere di più. La parola resistere sembra un non vivere, un doversi sempre difendere. Bisogna incontrare persone più vere, a cominciare dagli anziani, perché solo così si può resistere al pericolo della lobotomia a cui siamo sottoposti per vivere».

Bobo, tu sei di Livorno come Piero Ciampi. Qual è il tuo rapporto con questo grande e indimenticato artista?

«Ciampi cantava le sensazioni e le emozioni allo stato puro. Le sue canzoni arrivavano a tutti, con tutto il suo dolore, senza nessun pudore. Raccontava tutto il dolore che toglie la vita ma nella sua disperazione ci sono dei momenti sublimi sia musicali che di parole. È stato un coraggioso, un poeta che si raccontava. Insomma un Don Chisciotte della canzone italiana ed europea, molto vicino forse ai francesi, però anche a Modugno per certi aspetti e per la cantabilità molto fresca di certe sue canzoni».

Che rapporto hai con la musica tradizionale italiana?

«Francamente non ho molti rapporti, a volte mi vergogno a dirlo, ma sono più un rockettaro, sono un Beatles maniaco. Poi Rolling Stones, più, certo, la canzone italiana con Celentano, Modugno che è stato l'artista più potente che l'Italia abbia avuto in quegli anni. Molto vicino alla musica tradizionale, anche con il suo modo di cantare che deriva dai venditori del mercato mischiato alla lingua italiana».

Sono convinto che l'attuale tour possa essere accolto molto bene anche oltre confine. C'è qualche progetto in piedi?

«C'è qualche richiesta che stiamo valutando. In Inghilterra potrebbe funzionare, staremo a vedere. Se capiterà bene, altrimenti nessun problema».

Qual è stato il tuo ultimo impegno nel mondo del cinema?

«Serviva la voce di Marcello Mastroianni in un film di Scola sulla storia di Fellini. E così: ‹Ogni volta che c'è bisogno di lui, tu capisci, mi chiamano per questo lavoro ormai sporco per me, finirò per diventare lui quindi se mi chiamate, per favore chiamatemi Marcello...›. Ho stretto la mano a Scola, non male, no?»


Titolo: A famous local singer
Artista: Bobo Rondelli e l'Orchestrino
Produttore: Patrick Dillett
Etichetta: Ponderosa
Anno di pubblicazione: 2013

Tracce
(testi e musiche di Bobo Rondelli, eccetto dove diversamente indicato)

01. Bimbo sul leone  [Santercole/De Luca/BerettaDel Prete]
02. Il cielo è di tutti  [Rondelli/Rodari]
03. Il palloso
04. La marmellata  [Rondelli/Marchiori/Rondelli]
05. Cuba lacrime
06. 24.000 baci  [Leoni/Celentano/Vivarelli/Fulci]
07. Puccio sterza
08. Settimo round
09. Bambina mia
10. Bobagi's blues
11. Prendimi l'anima
12. Che gran fregatura è l'amor
13. Il paradiso