mercoledì 31 dicembre 2014

L'esordio in "Crescendo" del Duo Bottasso





Originari di Boves in Piemonte, i fratelli Simone (organetto diatonico) e Nicolò Bottasso (violino) sono tra i più apprezzati interpreti di musica tradizionale della nuova generazione. È musica viva, attuale, quella suonata dal Duo Bottasso che non si limita semplicemente a proporre suoni del passato ma, partendo dalle proprie radici musicali, scrive nuove e attuali pagine di musica tradizionale e popolare. Questo è "Crescendo", disco d'esordio pubblicato il 13 dicembre da Simone e Nicolò, che sarà presentato il 2 gennaio a Loano nell'ambito di "Racconti d'Inverno", rassegna collegata alla decima edizione del Premio Città di Loano per la musica tradizionale italiana. Nell'album i fratelli Bottasso hanno raccolto un repertorio originale in cui le influenze jazz e i ritmi brasiliani si mischiano con le peculiarità della musica occitana e francese.
"Crescendo" è un disco di elevato spessore artistico che merita di essere annoverato tra le cose più belle e interessanti pubblicate in ambito tradizionale nel 2014. Musica colta che poggia su basi solide ma allo stesso tempo mai di difficile comprensione, cerebrale o, peggio ancora, noiosa. È invece ritmo e passione quello che sgorga da queste nove tracce che hanno visto la luce dopo un lungo anno di lavoro. Per il loro album i fratelli Bottasso hanno potuto contare sulla collaborazione di artisti di grande fama come la cantante sarda Elena Ledda, il percussionista brasiliano Gilson Silveira, il polistrumentista e compositore Mauro Palmas al liuto cantabile, il direttore dell’Orchestra Tradalp Christian Thoma al corno inglese.
Al ritorno da Rotterdam, dove studia composizione jazz, contemporanea ed elettronica, e prima di ripartire per Gent con gli Stygiens, siamo riusciti a contattare Simone Bottasso che gentilmente ci ha concesso l'intervista che segue.




Simone, spiegaci come siete arrivati a produrre il vostro primo disco.

«Io e mio fratello Nicolò suoniamo insieme da quando lui ha iniziato, a sette anni e adesso ne ha venti. Fin dall'inizio abbiamo sempre suonato in concerti da ballo, poi abbiamo avuto anche richieste in altri contesti e ci siamo esibiti in festival di world music, di musica classica. In questi anni in molti ci hanno chiesto di registrare un disco di musiche da ballo ma l'idea non ci ha mai convinto, anche perché pensiamo che il ballo sia molto legato alla performance, all'esibizione dal vivo. Abbiamo quindi aspettato di avere le idee chiare e l'anno scorso ci siamo finalmente decisi ad andare in studio di registrazione e il lavoro è durato tantissimo. Abbiamo iniziato giusto un anno fa, intorno al 20 dicembre se non ricordo male, e il disco è uscito il 13 dicembre di quest'anno».

"Crescendo" è un disco sorprendente per la qualità delle composizioni, per la freschezza e anche per la varietà di generi. Nel vostro viaggio toccate la musica occitana ma anche le sonorità mediterranee, il funk, la musica scandinava, irlandese, brasiliana. Come siete riusciti a racchiudere tutto questo in nove composizioni mantenendo comunque una struttura equilibrata al disco?

«Abbiamo fatto un bel lavoro di progettazione. Avevamo chiaro fin dall'inizio che il disco sarebbe stato molto vario, con diverse sonorità, anche perché non abbiamo mai ritenuto interessante registrare un album che fosse semplicemente di musica tradizionale. Abbiamo così progettato un disco molto vario e con alcuni ospiti. Certo, c'era il rischio di produrre un disco "arlecchino" con sonorità non collegate tra loro ma mi pare che anche la critica abbia apprezzato il lavoro che è stato fatto e quindi siamo soddisfatti. Per quanto riguarda la metodologia siamo partiti da un progetto iniziale a cui, man mano che siamo andati avanti, abbiamo aggiunto ospiti, brani che all'inizio non erano previsti, abbiamo composto musiche nuove come "Magicicada" e "Crescendo". Non abbiamo mai tolto nulla e questa è un po' una nostra tendenza, abbiamo solo corretto un po' la rotta del progetto».

In pochi anni siete riusciti a conquistare la stima di molti illustri colleghi, a partire da Riccardo Tesi che ha sempre speso parole d'elogio nei vostri confronti. E poi nel disco avete potuto contare sulla collaborazione di Elena Ledda, Mauro Palmas, Gilson Silveira, Christian Thoma direttore dell’Orchestra Tradalp...

«Per noi è un onore. Sono persone che conosciamo da tanto tempo e con cui abbiamo avuto la fortuna di suonare. Riccardo nel disco non c'è ma ci ha aiutati entrambi tantissimo dandoci fiducia e consigli, quindi lo consideriamo presente a tutti gli effetti. Con Riccardo inoltre ho un progetto attivo da tre-quattro anni che si chiama "Triotonico" (il trio di suonatori di organetto diatonico è completato da Filippo Gambetta, ndr). In "Crescendo" ci è sembrato giusto ripercorrere un po' tutta la storia del duo e della nostra musica e invitare questi grandi artisti. La loro presenza è stata per noi di grande aiuto».

Inoltre so che per due anni Riccardo Tesi ti ha affidato un ruolo importante nel festival "Sentieri Acustici" che si tiene tutti gli anni a Pistoia.

«Per due anni ho fatto quello che Patrick Vaillant ha fatto nell'ultima edizione del festival. Insieme a Nicolò, a Pietro Numico che ha curato la direzione corale e che lavora con me anche con Abnoba, e con gli ospiti che sono presenti anche nel disco come Gilson Silveira, il contrabbassista Luca Curcio e il chitarrista Francesco Motta abbiamo curato la produzione originale del festival. Il lavoro è consistito nel fare quello che normalmente faccio con Folkestra ovvero scrivere musiche originali per un ensemble, una orchestra di strumenti tradizionali e non, e un coro. È stata una bella palestra, con un po' di ansia perché è sempre stato molto difficile. In quell'occasione Riccardo mi ha dato tantissima fiducia, ha scommesso su una persona che non era conosciuta come compositore. Non avevo le credenziali per fare una lavoro così ambizioso, però ha funzionato e mi ha trasmesso la voglia di approfondire lo studio della scrittura e della composizione per orchestra e mi ha spinto a iscrivermi al Conservatorio di Rotterdam dove sto studiando adesso».

Dite che vi sentite più eredi che attori della scena folk revival. Ci spieghi il motivo.

«Abbiamo sempre vissuto la diatriba tra i tradizionalisti e chi faceva folk rock e non ci è mai piaciuto schierarci. Sicuramente quello che facciamo non è riprendere la musica tradizionale come veniva fatto dai nostri insegnanti o da chi ha suonato musica tradizionale prima di noi. Non è più tempo di folk revival, c'è poca possibilità di andare a "raccogliere" musica e secondo me è arrivato il momento di creare una nuova tradizione. Fino a 20-30 anni fa c'era ancora un po' di trasmissione di musica orale, adesso tutto viene fissato su cd e il tramandare musica, come avveniva tradizionalmente, non esiste più. Quello che tentiamo di fare è digerire la musica che abbiamo ricevuto e cercare di darle un futuro sottoponendola a un processo forzato di evoluzione».

Nella canzone che dà il titolo al disco ti sei cimentato nella composizione per un ensemble allargato di undici elementi. Quali difficoltà hai incontrato?

«Le difficoltà sono state legate alla mia crescita come compositore. Sto facendo un percorso da musicista contemporaneo e ho avuto difficoltà a trovare una relazione tra quello che sto studiando e quello che faccio abitualmente nel mio lavoro, cioè scrivere musica non troppo complessa, non troppo dissonante. La difficoltà è stata appunto trovare un collegamento tra il passato di musicista tradizionale e il mio presente di compositore contemporaneo. E poi ci sono state difficoltà logistiche visto che io ero in Olanda e i musicisti in Italia, e fare le prove e mettere insieme due universi musicali diversi, ovvero il quartetto d'archi classici e i fiati jazz, non è stato facile».

Che rapporto hai con tuo fratello Nicolò?

«Ci sono dinamiche interessanti. Certo, suonare in famiglia è per certi versi più facile. È più agevole comunicare quando si va d'accordo e quando invece non c'è unicità di vedute si trova facilmente una quadra perché c’è molta più sincerità e fiducia reciproca. Questo aiuta a superare le inevitabili difficoltà».

Ma alla fine chi prende l'ultima decisione?

«Alla fine sono io ad impormi perché sono più grande, ho più esperienza, ho avuto la possibilità di suonare in diversi gruppi, di fare musica. Poi adesso studiando composizione mi sto chiarendo le idee su certe dinamiche e quindi l'ultima parola ce l'ho io anche se non è sempre facile».

Mentre i vostri coetanei ascoltavano Kylie Minogue, Eminem, Cristina Aguilera e Robbie Williams voi quale musica ascoltavate?

«Tutte le cose che non ascoltavano gli altri. Questo a volte è un vantaggio ma ora lo considero anche un limite perché sento che mi manca un collegamento con la musica che la gente comune ascolta e capisce. A livello pratico abbiamo iniziato ascoltando tanta musica tradizionale, sia delle nostre parti che in generale di tutta l'Europa, poi ci siamo interessati entrambi al jazz e alla musica classica. Io ero un fanatico del rock progressive. E poi funk e ultimamente musica elettronica. Penso che sia indispensabile avere ampi orizzonti quando si vuole creare una musica al passo con i tempi».

L'album si chiude con "Magicicada", la storia della cicala che dopo diciassette anni passati sotto terra completa il suo ciclo vitale alla luce del sole. Una metafora per rappresentare cosa?

«Ho visto un documentario sulle cicale e mi è venuto da pensare a questi animaletti che passano quasi tutta la loro esistenza sotto terra. Sono la metafora di quelle persone che a un certo punto della vita si accorgono che la strada intrapresa è diversa da quella che immaginavano, e magari scoprono che c'è un sole che li aspetta da qualche altra parte. Quel sole è anche la foresta che si riempie di musica, come appunto quella della cicale. È l'augurio di un futuro migliore per tutti gli uomini che scoprono che là fuori c'è qualcosa di nuovo, magari legato alla musica. Ed è anche l'augurio che cresca l'interesse ad andare ai concerti e a investire nell'arte come liberazione dalle sofferenze».

Cosa hanno a che fare con la musica tradizionale le percussioni brasiliane di Gilson Silveira e l'uso della loop station nella canzone "Cosa faresti se non avessi paura?"?

«Un amico ha fatto una ricerca e ha scoperto che in Brasile vivono persone di origine occitana e le percussioni fanno parte di questo gioco. Poi sono anche il frutto di questa bella collaborazione che abbiamo avuto con Gilson Silveira nel progetto di "Sentieri Acustici". Il fatto di utilizzare l'elettronica e la loop station è un piccolo mattoncino che abbiamo posato per il futuro. Di cose che vorremmo fare… È stimolante l'idea di utilizzare le macchine per modificare il suono degli strumenti».

I puristi storceranno il naso, naturalmente…

«Temo che lo abbiamo già fatto ascoltando questo disco».

Quali sono le difficoltà più grandi che avete dovuto affrontare nella vostra carriera?

«Se devo essere sincero la produzione del disco è stata una di queste. Adesso che l'album è finito e che si fanno i concerti va un po' meglio. Il generale la situazione culturale e musicale in Italia è veramente terrificante e se ti capita leggi quel bel libro della Banda Osiris intitolato "Le note dolenti. Il mestiere del musicista: se lo conosci lo eviti", che descrive bene la situazione della musica attuale e consiglia a tutti di non iniziare assolutamente a suonare uno strumento perché non è quella la strada per sopravvivere».



Titolo: Crescendo
Gruppo: Duo Bottasso
Etichetta: autoproduzione / Visage Music
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche di Simone Bottasso, eccetto dove diversamente indicato)

01. Cosa faresti se non avessi paura?
02. Diatofonia N.7
03. Reina  [Simone Bottasso, Maria Gabriella Ledda]
04. Monkerrina
05. Bourrée  [trad.]
06. Receita de Samba / Scottish sfasà  [Jacob do Bandolim, Silvio Peron]
07. The rose of Raby / Incantata  [Dave Shepherd / Nicolò Bottasso]
08. Crescendo
09. Magicicada



martedì 23 dicembre 2014

"Wood Rock", il variopinto paesaggio dei Tamuna





I Tamuna arrivano da Palermo, dal triangolo formato dai quartieri Kalsa, Zisa e Noce. Nella loro musica si scorgono i segni delle culture che per millenni hanno contaminato e contribuito a creare quello che è oggi la Sicilia, la sua arte, i suoi uomini. Le mille sfaccettature di uno dei paesaggi culturali più ricchi e affascinanti si possono trovare in "Wood Rock", secondo album del gruppo dopo "Sicily World Music" e l'Ep in edizione limitata "15 minutes with Tamuna” pubblicato in allegato al libro di Daniele Billitteri "Homo Panormitanus". I ritmi della tradizione, quelli scanditi dalla tammorra, si mischiano e si fondono con influenze blues, reggae, rock e pop. Il "rock di legno" dei Tamuna ci mostra ancora una volta come la musica, così come la cultura popolare e l'arte, non siano entità statiche ma dinamiche che si evolvono e mutano attraverso continue contaminazione. In quest'ottica non ci si deve stupire se il tamburello va a braccetto con il cajón o se i testi delle canzoni dei Tamuna passano con disinvoltura dal siciliano all'italiano e all'inglese. Così come solo apparentemente può apparire strana la scelta del nome di questo quartetto. Il termine Tamuna è infatti di origine georgiana e significa portatori di pace ma è anche il nome della regina più importante della Georgia, "Tamar", detta anche "re dei re, regina delle regine", un personaggio leggendario di questa regione caucasica crocevia tra Europa e Asia.
Un mix di contaminazioni, quindi, che rendono questo disco, pubblicato sotto etichetta New Model Label,  fresco, moderno, ricco di fascino e suggestioni.
La line-up del gruppo è Marco Raccuglia (voce), Giovanni Parrinello (tamburello e percussioni), Carlo Di Vita (chitarre), Riccardo Romano (basso). In qualità di ospiti hanno collaborato Fabio Rizzo e il trombettista Alberto "Anguss" Anguzza.
In questa intervista collettiva ai Tamuna parliamo del disco e della variopinta cultura siciliana. 




Dal cuore di Palermo un album che sia apre all'esterno con canzoni che costruiscono ponti linguistici tra italiano, siciliano e inglese e di genere. Qual è il substrato culturale che ha fatto nascere questo interessante progetto?

«Nella nostra cultura sicula è insito più che mai il concetto di commistione, è più forte di noi, probabilmente è quasi un bisogno ancestrale quello di mettere insieme lingue e culture differenti. Basti pensare alle diverse matrici del nostro dialetto, condizionato da tante dominazioni (araba, greca, normanna, gallica, iberica). Siamo cresciuti ascoltando attorno a noi le mille sfaccettature del nostro dialetto, che cambia di quartiere in quartiere, penso che tutto questo ci abbia in qualche modo influenzato».

Prima dei Tamuna quali sono state le vostre esperienze in ambito musicale?

«Ognuno di noi viene da esperienze differenti, Giovanni con la compagnia del suo teatro ha portato la musica popolare siciliana in giro per il mondo, Marco ha lavorato dentro alcune importanti produzioni di musical, Charlie come chitarrista blues ha suonato il lungo e largo vivendo per un po' in Ungheria, e Riccardo ha alle spalle diversi anni di palco di ogni tipo».

Con "Wood Rock" il ritmo del tamburo si mischia a strumenti come il cajón che nulla hanno a che fare con la tradizione della musica del sud Italia. Qual è il messaggio che volete trasmettere con la vostra musica?

«Un messaggio di pace, intesa come unione anche tra cose differenti. La musica è una manifestazione assoluta di pace, perché mette insieme, in questo caso, uno strumento peruviano e uno appartenente alla cultura mediterranea senza creare alcun disagio».

"Gerlando" è ispirato al libro di Daniele Billitteri "Homo Panormitanus. Cronaca di un'estinzione impossibile". La musica contaminata, come appunto la vostra, potrebbe però portare, se non proprio ad una estinzione, ad un annacquamento delle caratteristiche peculiari della cultura siciliana, non credete?

«Assolutamente no. A nostro modo di vedere la tradizione deve sempre stare al servizio dell'innovazione. Siamo musicisti, non vorremo mai perdere lo spirito ingegneristico dell'inventore, perché altrimenti saremmo semplici custodi della nostra tradizione».

Proseguiamo a parlare della canzone "Gerlando" che si conclude con una citazione di "Hey Jude" dei Beatles. Un divertissement oppure la scelta voluta di contrapporre i Beatles e la cultura inglese a quella colorata e "rumorosa" siciliana?

«A dire il vero è solo un divertissement, una simpatica citazione che volevamo fare da sempre, ma anche l'ennesima dimostrazione che dentro la musica ci può stare veramente di tutto. Inoltre volevamo dare un'altra gioia a Gerlando».

In "Emanuele" affrontate il problema della condizione dei giovani laureati italiani costretti ad emigrare all'estero per trovare lavoro. Una piaga che colpisce non solo il sud Italia. Secondo voi quali sono le soluzioni migliori da adottare per la vostra terra?

«Purtroppo non abbiamo soluzioni immediate, siamo vittime di decenni di mala politica ed è da una "sana" politica che bisognerebbe ricominciare. Palermo ha uno dei centri storici più grandi d'Europa, colmo d'arte, e prima in classifica per non saperli sfruttare al meglio, bisognerebbe partire anche da questa consapevolezza e iniziare a cambiare lo stato delle cose».

Nel disco ci sono anche due storie d'amore come "Fimmina" e "Oro e rame". Ce ne volete parlare?

«L'amore da due prospettive molto differenti. Quello di "Fimmina" è un amore nostalgico, è quello dei nostri genitori che vivono insieme da una vita e non riescono a immaginarsi l'uno senza l'altro. Ma è anche una visione storica, nel senso che testimonia come la tecnologia, l'innovazione, e tutto ciò che abbia a che fare con l'artificio umano, in qualche modo ci condizioni nelle dimensioni più intime del nostro quotidiano. Quando "il telefono non stava in mano ma nel corridoio", alcune cose erano veramente impensabili. "Oro e rame" invece ci riporta nel nostro tempo, ciò che in "Fimmina" è nostalgico qui è effimero. La canzone gioca sull'idea che l'amore altro non è che una grande, bellissima, illusione, e dunque illuso è colui che confonde il rame per oro».

"Rosalia" è dedicata alla Santa di Palermo. Una bella donna che si è opposta alla volontà del padre e ha scelto di donarsi a Dio. Un vero atto di ribellione…

«Esattamente! Quello che ci piaceva far venir fuori da questa storia è proprio la dimensione profana. Volevamo dedicare una canzone al tema della violenza sulle donne, e abbiamo preso come riferimento una donna con le radici ben salde nella nostra cultura. Rosalia, bella come il sole, costretta a subire la violenza psicologica del padre che l'aveva promessa in sposa ad un ricco uomo che lei non amava, e per questo si rifugiò a Monte Pellegrino, dove morì, per sposarsi a Dio. A Palermo la gente è molto devota alla "santa" pur non avendo idea di chi fosse la "donna"».

Tutte le vostre canzoni si chiudono con un messaggio positivo. È una speranza o una visione della vita che condividete con la vostra generazione?

«È solo il nostro approccio, sentiamo la necessità di canalizzare tutto dentro un messaggio positivo, che poi diventi una speranza o semplicemente la possibilità di estraniarsi da tutto il resto per qualche minuto. Ma non è un dogma o una cosa che ci siamo prestabiliti, è andata così, magari nel prossimo disco sarà tutto diverso».

Partite dalle sonorità tipiche della tradizione siciliana per contaminarle e ampliare l'orizzonte sonoro. Qual è il vostro pubblico più affezionato?

«Vantiamo un pubblico variopinto, fatto di grandi e piccini ed è una cosa che ci rende orgogliosi. Vedere ai nostri concerti adulti "costretti" lì dai loro figli è una sensazione meravigliosa».

In Sicilia l'uso del dialetto in musica non è un evento raro. Mi sembra che ci sia molta voglia di conservare e divulgare la cultura siciliana, forse molta più di altre realtà regionali. Cosa ne pensate?

«Non ci abbiamo mai riflettuto abbastanza in effetti. Però siamo isolani, prima ancora di qualsiasi altra cosa. La nostra identità culturale è molto condizionata da questo fattore».

Il disco si chiude, a sorpresa, con una undicesima traccia che è una reprise di "Rosalia". Perché questa scelta?

«In realtà è esattamente il contrario di come sembra. La prima versione del brano è quella tammorra e voce che chiude l’album, successivamente abbiamo deciso di farne una versione in cui a suonarla eravamo tutti, ma abbiamo poi deciso di tenerle entrambe nel disco».

Con "Wood Rock" avete conquistato il premio della critica e il premio come miglior interpretazione al Premio Parodi. Un bel riconoscimento per un gruppo che è attivo solo da due anni. Che ricordi avete di questa recente esperienza?

«È stata un'esperienza magnifica. Siamo arrivati lì senza grandi aspettative, essendo un festival dedicato alla world music, ci aspettavamo di essere un po' snobbati. Invece abbiamo vinto il premio che proprio non pensavamo di vincere, quello della critica (oltre a quello per la migliore interpretazione) che è sempre quello un po' più ambito da noi musicisti».

È curioso come nel libretto abbiate deciso di non specificare gli strumenti che ognuno di voi suona. La vostra idea è di considerare i Tamuna una entità indivisibile o vi è passato di mente?

«È stata una scelta ponderata, ci piace l'idea di considerare Tamuna come un'entità indivisibile che si avvale di noi quattro ma senza gerarchie di sorta».

Quali sono i vostri prossimi progetti?

«Nei prossimi mesi porteremo la nostra musica fuori dall'Italia, esattamente a Londra. Abbiamo già diverse date e stiamo lavorando per incrementarle. E poi si vedrà».




Titolo: Wood Rock
Gruppo: Tamuna
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Riccardo Romano, Carlo Di Vita, Marco Raccuglia, Giovanni Parrinello, eccetto dove diversamente indicato)

01. Penso
02. Fimmina
03. Ciuscia  [Raccuglia, Parrinello, Di Vita]
04. Gerlando  [Raccuglia, Parrinello, Di Vita]
05. Emanuele
06. Oro e rame
07. Rosalia
08. Seguimi
09. Never
10. Lasciala libera
11. Rosalia (reprise)



martedì 9 dicembre 2014

"Mo' mo'", i Gasparazzo e l'essenza delle cose




I Gasparazzo sono sulle scene da oltre dieci anni e si sono ritagliati il loro spazio nel panorama musicale italiano, quello che non si alimenta con show e concorsi televisivi ma che viene mantenuto in vita e in salute macinando chilometri, in macchina o in pullmino, per portare la musica sui palchi, nelle piazze e nei teatri dello "stivale" e anche oltre. Il gruppo emiliano-abruzzese, nato nel 2003 tra Bologna e Reggio Emilia, lo fa con una urgenza espressiva che non è scemata negli anni e che è ben rappresentata dal titolo del loro nuovo album, "Mo' mo'", ovvero, "proprio adesso, ora". Si tratta di un disco ricco di sfaccettature, in cui le tante anime del gruppo concorrono a mischiare sonorità rock a marcate influenze mediterranee, spruzzate reggae a qualche incursione nel combat rock e nel folk nostrano. Una lavoro che ad un primo superficiale ascolto potrebbe sembrare disomogeneo nella sua struttura portante ma che, a una più attenta analisi, dimostra di essere equilibrato e di possedere un filo conduttore ben preciso. Nove canzone, nove storie, compongono il sesto disco del gruppo. Con piglio a volte ironico e scanzonato, altre volte impegnato e drammatico, vengono descritti personaggi e situazioni della società moderna. Si passa così come estrema facilità da "Michelazzo" a "Rovesciala", canzone nata come inno ai Mondiali Antirazzisti, dal ragazzo di strada di "Centopelle" descritto da Carlo Collodi nella raccolta "Occhi e nasi" alla toccante "Cristo è là", in cui si è dato spazio alle parole scritte da Lino Aldrovandi, papà di Federico, studente ferrarese ucciso nel 2005.
La produzione dell'album, uscito sotto etichetta New Model Label, porta la firma del pianista e fisarmonicista Massimo Tagliata.
Dei Gasparazzo fanno parte Alessandro Caporossi (voce), Generoso Pierascenzi (chitarre, voce ed elettroniche), Giancarlo Corcillo  (fisarmonica), Roberto Salario (basso e contrabbasso), Lorenzo Lusvardi (batteria).
Noi abbiamo parlato con Generoso Pierascenzi che ci ha descritto "Mo' mo'", disco bello, stimolante e tutto da scoprire.



"Mo' mo'" …proprio ora, adesso. Per fare cosa?

«Per catturare l’essenza. Per dare alle sensazioni il tempo e lo spazio che meritano, per dare una valenza reale agli scambi interpersonali, agli incontri ed agli scontri. Non è un inno alla velocità o alla sintesi, al contrario il concetto è proprio quello di dare priorità all'istinto e poi "coccolarsi" le scelte fatte, che chiaramente non saranno perfette, ma resteranno nella nostra storia».

Il titolo però non è una espressione linguistica tipica della vostra regione d'adozione, l'Emilia…

«La nostra band è formata per 3/5 da abruzzesi ed io che sono cresciuto a Teramo sento molto familiare questa espressione. La nostra regione di adozione è l'Emilia dove il "mo'", che sta per adesso appunto, è sempre più presente ma è chiaro che è un termine migrante».

È il vostro quinto album in studio. Cosa è cambiato da "Tiro di classe", il vostro disco d'esordio del 2007?

«È cambiato soprattutto il metodo compositivo. Nel primo album avevamo attinto alla nostra passione per l'elettronica e per gli ascolti variegati cercando varie vesti ai brani e affidandoci, poi, a studi di registrazione. Sul nuovo lavoro siamo arrivati a comporre e preprodurre nello stesso momento, senza accanimento alcuno sui brani. Dedicando più tempo alla ricerca di timbri ed agli arrangiamenti anche grazie al fatto che registriamo nei nostri studi personali. Oggi, a differenza del primo album ricco di molte sonorità anche lontane tra loro, l’architettura sonora è più chitarristica anche se non emerge ad un primo ascolto».

Quale è stata la molla che vi ha spinti ad iniziare la registrazione del vostro nuovo disco?

«Nell'estate del 2013 avevamo pensato che potesse essere ora di tornare a comporre ma le idee erano vaghe e confuse. Nell'agosto dello stesso anno ho avuto un momento molto doloroso in famiglia in Abruzzo che mi ha riportato a Bologna in un isolamento fisico e sociale che è diventato immediatamente creativo e produttivo. Suonavo e registravo a tutte le ore con una vecchia Framus a 5 corde, una chitarra baritona per le linee di basso, un controller midi ed il microfono per la voce. Dopo un mesetto ho espresso ai ragazzi della band l'urgenza di suonare il materiale catturato in quei giorni. Abbiamo aggiunto un paio di idee di Alessandro (Caporossi, ndr) che erano già in cantiere e ci siamo messi al lavoro».

Raccontaci la genesi della canzone "Rovesciala", nata come inno dei Mondiali Antirazzisti.

«I Mondiali Antirazzisti hanno tenuto a "battesimo" o meglio "battezzo" la band Gasparazzo. Nel 2003 e poi nel 2004 abbiamo suonato per questo evento che abbiamo sempre comunque frequentato giocando con la squadra di Materiale Resistente, che era una associazione antifascista di Correggio. Nel 2013 ci hanno suggerito di partecipare al contest per creare un inno ed abbiamo scritto raccontando un pochino la nostra storia, oltre a "rovesciare" le parole del gioco del calcio a favore di un calcio e un mondo diversi. Ci hanno premiati con il secondo posto per il brano ed abbiamo quindi festeggiato i dieci anni suonando di nuovo, nel 2013, sul bellissimo palco nel tendone dei Mondiali Antirazzisti».

In "Michelazzo" cantante un personaggio <che mangia, beve e si fa il mazzo>. Chi è Michelazzo e quale personaggio famoso potrebbe rappresentare?

«D'istinto ti direi che nel mondo della cosiddetta indie music di "Michelazzi" ce ne sono tanti. Ma non è il musicista l'obiettivo della canzone. Michelazzo, quello creativo, è in ognuno di noi, alcuni ne hanno il talento e riescono a farne uno stile di vita. Alcuni hanno solo le possibilità economiche ma non il talento e vivono di imbarazzi. Io ne conosco almeno quattro dalla Sicilia al Piemonte. I più famosi (ma poco creativi) siedono in parlamento».

"Se i posacenere potessero parlare" è invece scritta in collaborazione con Mezzafemmina, all'anagrafe Gianluca Conte. Quando si sono incrociate le vostre strade?

«Con questa domanda approfitto per ringraziare Andrea Caporossi detto Zichietto che, oltre ad averci suggerito il nome della nostra band, è un valido collaboratore anche sul piano testuale. Lui ascoltava la musica di Gianluca, si sono conosciuti e loro hanno deciso il featuring coi Gasparazzo. È stato molto interessante lavorare con Mezzafemmina».

"Cristo è là" è dedicata a Federico Aldrovandi e il testo è basato sulle parole scritte da papà Lino in memoria del figlio assassinato. Come è nata questa canzone?

«Anche in questo caso Zichietto ha fatto da ponte tra noi e Lino Aldrovandi chiedendo materiali ed autorizzazioni. Avevamo a cuore il caso di Federico e di tutte le vittime delle istituzioni, così abbiamo conosciuto Lino e Patrizia. Ne è nata una collaborazione e soprattutto un incontro davvero speciale. Nel brano le parole di tutte le strofe sono opera di Lino».

Morti che in Italia, vista anche l'ultima sentenza in merito all’uccisione di Stefano Cucchi, non hanno un colpevole. Qual è la tua idea?

«La cosa assurda sta nel fatto che è ormai chiaro che il nostro Stato genera ed alleva la mostruosità. Occulta l'evidenza come se non fossimo tutti umani e digerisce la barbarie come se non esistesse più l'anima. Senza il rumore mediatico, la collaborazione di cittadini sensibili e l'incredibile forza delle disperate famiglie, non ci sarebbe neanche la ricerca della verità per queste morti assurde che, a mio personale avviso, sono anche rivendicate dai branchi in divisa quando attaccano Patrizia o Stefania che vogliono solo verità».

Per la produzione dell’album vi siete affidati a Massimo Tagliata. Da cosa possiamo riconoscere il suo contributo?

«Aveva masterizzato il nostro primo album e lo conosciamo dal 2006. Abbiamo pensato a Massimo perché ci piace il suo modo di lavorare, è molto schietto con noi e vive a dieci minuti da casa mia, per cui gli incontri ravvicinati, quelli veri, sono comodi e forse fanno la differenza. Il suo intervento è riconoscibile nelle eleganti sonorità delle fisarmoniche (il suo strumento oltre al piano) e nel carattere pop delle voci. Anche nella produzione dei beat elettronici il suo lavoro è notevole. In pratica Massimo ha reinterpretato quelle che erano le nostre sequenze elettroniche scure e giurassiche e come le sentiamo noi, in una veste più pop forse più adatta alle canzoni».

Come avete lavorato sugli arrangiamenti?

«Come ti spiegavo prima, io ho fatto un arrangiamento generale e di getto in fase di preproduzione. Era mia intenzione osservare l'album nella sua completezza per poi arrangiare i singoli brani, quindi volutamente si è lavorato su più canzoni simultaneamente. Nel registrare le tracce definitive si sono uniti i ragazzi della band per definire il tutto. Anche in studio, con Massimo, abbiamo preso decisioni importanti da questo punto di vista».

Questo disco è nato tra Bologna e Reggio Emilia ma il suono è geograficamente molto più esteso e se vogliamo anche molto più mediterraneo di quello che si potrebbe pensare…

«Forse viene fuori la voglia di viaggiare e l'ascolto di musica a 360 gradi. La band Gasparazzo ha comunque girato in lungo e in largo l'Europa, è stata anche più volte in Africa, in Albania e in tutta l'Italia. Abbiamo vissuto e suonato con brasiliani, argentini, africani, tedeschi. Anche le forme d'arte diverse tra loro si proiettano nel nostro lavoro e spesso in fase produttiva dobbiamo ragionare criticamente sui confini stilistici».

Eppure la fisarmonica rimanda a una tradizione folk molto ben radicata nella vostra regione. È questo l'elemento che più vi lega alla vostra terra?

«No, l'elemento che più ci lega all'Abruzzo è la cantata in strada, il suonare insieme bevendo vino e inventando giri e strofe con divertimento e dissenso. È vero anche che, se in Italia spesso ai bimbi si inizia a far suonare il piano, in Abruzzo la fisarmonica o meglio il più tradizionale du botte (organetto a due bassi) è quasi d'obbligo per la gioia e non dei piccoli musicisti. Negli anni Ottanta ti assicuro che erano tantissimi i virtuosi adolescenti che studiavano ad orecchio e facevano ballare intere piazze solo col bellissimo e ribelle du botte».

Tra le tante attività extra-musicali in cui siete impegnati c'è anche quella dei laboratori di rumoristica e di doppiaggio che portate nelle scuole. Ci spieghi di cosa si tratta e qual è lo scopo?

«Tra i tanti laboratori che io ed Alessandro (Caporossi, ndr) abbiamo tenuto, quello di cui parli è quello più potente in tutti i sensi. In poche parole lavoriamo con gruppi di ragazzi delle scuole medie ed elementari mettendo al centro dell'attenzione il suono e il rumore soprattutto. Si va dal creare una banca di suoni che i ragazzi portano da casa fino al vero e proprio doppiaggio di cortometraggi, cartoni animati o scene di film. Si producono i suoni e le voci in autonomia inventando strumenti, generando versi, frasi e tutto il necessario alla sonorizzazione di un filmato. L'esperienza, che rapisce noi, i ragazzi e le insegnanti che assieme a noi curano i laboratori, tende a sollecitare i sensi e l'attenzione verso gli eventi esterni, stimola la curiosità ed offre una opportunità per un riciclo creativo oltre a suggerire l'ascolto reciproco e l'interazione tra persone rispettando le dinamiche del lavoro di gruppo e dando voce e suono al silenzio».

Alla fin del libretto che accompagna il cd è riprodotto un personaggio che dice <ma non finisce qui!>. Ci lascia pensare che ci sarà un futuro per i Gasparazzo. In che direzione andrete?

«Il Gasparazzo che dice che non finirà è l'omino in salopette, operaio della Fiat nei primi anni '70, creato dalla matita di Roberto Zamarin. Ci piace contribuire alla sua memoria e lo ringraziamo, con queste citazioni nei nostri album, per la sua arte critica e appassionata. Il futuro della band è quello di suonare il più possibile questo album e nell'imminente è in programma una collaborazione con Massimo Tagliata che suonerà sul brano "Mimi", che probabilmente sarà il terzo singolo, seguito da un nuovo video dedicato all'arte di strada».




Titolo: Mo' mo'
Gruppo: Gasparazzo
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(testi di Alessandro Caporossi e musiche di Generoso Pierascenzi, eccetto dove diversamente indicato)

01. Rovesciala
02. Michelazzo
03. Mo' mo'
04. Agro 400
05. La tromba di Eustachio
06. Impulsi nudi
07. Centopelle
08. Se i posacenere potessero parlare  [testo di Gianluca Conte]
09. Mimi
10. Cristo è là
11. Fondaco



mercoledì 19 novembre 2014

In Australia le orme dei passi di Delsaceleste




Una relazione finita male, un viaggio per ritrovare la serenità e la pace interiore, un soggiorno in Australia, a Geelong nello stato di Victoria. Sono queste le esperienze che danno lo spunto a Delsaceleste, all'anagrafe Marco Del Santo, per comporre le canzoni del suo nuovo album, dal titolo "Le orme dei miei passi", uscito in queste settimane per l'etichetta New Model Label. Il cantautore milanese, attivo sulla scena indipendente dal 2006 come polistrumentista, cantante e autore, parte dalla traumatica rottura di una rapporto per affrontare un viaggio catartico, di accettazione della nuova situazione e per riscoprire se stesso. Il tutto in un ambiente affascinante dagli spazi sterminati e ignoti come l'Australia in cui lasciarsi trasportare e ritrovarsi.
Per farlo Delsaceleste («nome che nasce dall’unione del diminutivo del mio cognome, Delsa, usato comunemente da amici e conoscenti, e Celeste, la protagonista di un racconto che ho scritto tra il 2005 e il 2006», spiega) ricorre, come già aveva fatto per il precedente "La fabbrica dei ricordi" (2011), alla formula del concept album, tanto caro al genere progressive. Dal punto di vista musicale però il disco è molto diverso: si passa dal classico cantautorale chitarra e voce, a brani più articolati che esplorano il territorio rock e beat, senza far passare in secondo piano echi sudamericani. A contribuire alla nascita del disco sono stati Giacomo Ferrari (pianoforte), Paolo Zucchetti (batteria), Rino Garzia (basso), Davide Minelli (chitarra elettrica), Barbara Pinna (violino).
Questa nuova esperienza artistica è arricchita da un racconto scritto da Fabio Testa, alias Giovanni Fugazza, che lega le canzoni del disco, e le illustrazioni di Jacopo Silvestri
In questa breve intervista, Marco Del Santo presenta il suo nuovo disco.



Marco, è passato un bel po' di tempo dal precedente "La Fabbrica dei ricordi". Cosa è successo?

«Il periodo di lavorazione de "La Fabbrica dei ricordi", con annessa mostra a tema a cui hanno partecipato diversi artisti, è stato frenetico. Per il progetto successivo, "Le orme dei miei passi" volevo lavorare in maniera più meditata e accurata essendo diversi i fronti coinvolti: musiche, racconto e illustrazioni. Mi sono preso il tempo necessario». 

Perché hai scelto di registrare un concept album?

«Mi capita di vivere periodi di intensa creatività in cui scrivo di getto diversi brani che, proprio per essere stati concepiti in un'unica fase, finiscono per essere naturalmente correlati tra di loro, come elementi differenti di una visione più ampia e complessa».

Quanto ha inciso sulla scrittura delle canzoni del disco la tua esperienza di vita in Australia?

«È stata fondamentale, diretta ispirazione tra realtà e immaginazione».

Quanto tempo hai vissuto nella terra dei canguri?

«Solamente tre mesi, ma nella mente direi senz'altro di più».

Per un cittadino di una grande città come Milano deve essere abbastanza "traumatico" essere trasportato negli spazi sconfinati di quel continente. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«È stata l'esperienza più forte che abbia vissuto sinora. Ho avuto modo di mettermi alla prova, di riscoprire le mie potenzialità e analizzare i miei limiti, cercando sia di ritrovarmi che di rinnovarmi».

Sembra che tutta questa libertà ti abbia condizionato nel titolo di alcune canzoni come "Spazi immensi" e "Dolce solitudine" e nella musica dei brani strumentali…

«Verissimo, ho cercato di esprimere con parole e sonorità quelle sensazioni così liberatorie».

La rottura di un relazione è il punto di partenza di questo viaggio. Sembra però più che altro una liberazione. Non si avverte quel senso di disperazione che ci si potrebbe aspettare. Qual è il messaggio che hai voluto trasmettere?

«In ogni fase della nostra vita convivono benessere e complessità, bisogna riuscire a conservare ciò che di positivo ci è stato dato e farlo diventare parte integrante di noi stessi, è fondamentale avere modo di meditare intensamente, di arrivare in profondità».

Quali difficoltà hai incontrato a mettere in musica le tue emozioni?

«Ogni processo creativo è anche una esplorazione della propria emotività, quindi non è mai qualcosa di neutro. Nel mio caso entro in sintonia con le mie sensazioni e cerco di ricostruirle musicalmente».

Come avete lavorato sugli arrangiamenti di "Le orme dei miei passi"?

«Gli arrangiamenti dei brani sono stati costruiti sopra i miei provini e sono stati scritti assieme ai musicisti che l'hanno suonato. Voglio cogliere l'occasione per ricordarli e ringraziarli tutti: dal batterista Paolo Zucchetti, al pianista Giacomo Ferrari, al chitarrista Davide Minelli, al bassista Rino Garzia, alla violinista Barbara Pinna, per finire col compositore Luca Talamona con cui ho lavorato a "Pensieri in volo"».

Alla base del concept c'è una storia raccontata da Fabio Testa e illustrata da Jacopo Silvestri. Come sono nate queste collaborazioni e come avete portato avanti il progetto?

«Sono entrambi grandi amici e già in passato miei collaboratori. Conoscendo le potenzialità e le abilità di Fabio come scrittore e di Jacopo come artista, in questo caso specifico illustratore, è stato spontaneo e naturale rivolgermi a loro per lavorare al progetto "Le orme dei miei passi". Devo dire che è stato molto stimolante e appagante lavorare con loro fianco a fianco in ogni singola fase del progetto. Siamo partiti dai brani musicali allo stato grezzo per poi creare qualcosa di più ampio e completo».

Hai dei riti precisi nella scrittura?

«Come ti dicevo prima, solitamente diversi brani nascono in una stessa fase e si innesca quel processo che ti ho già descritto. Diciamo che è un rito di cui sono quasi succube».

Un desiderio da realizzare con la musica e uno nella vita…

«Per citare un po' la tematica del disco e della title-track, ogni passo che si compie è parte di un percorso in continua evoluzione, di cui non si può sempre intuire la direzione. Dobbiamo cercare allo stesso tempo di tenere salde le nostre radici e metterci continuamente in discussione».




Titolo: Le orme dei miei passi
Artista: Delsaceleste
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi Marco Del Santo, eccetto dove diversamente indicato)

01. EK 092
02. Contraddizione
03. Pensieri in volo  [musica di Luca Talamona e Marco Del Santo]
04. Spazi immensi
05. Dolce solitudine
06. Ombre
07. Soltanto polvere
08. Non rischiamo di scadere
09. Le orme dei miei passi
10. La metamorfosi
11. Titoli di coda



giovedì 13 novembre 2014

Emiliano Mazzoni torna con "Cosa ti sciupa"





A due anni da "Ballo sul posto", Emiliano Mazzoni torna con il disco "Cosa ti sciupa". Il cantautore di Piandelagotti, paese di montagna a 1.200 metri sull'Appennino Emiliano, prosegue il discorso iniziato con l'album d'esordio. Il pianoforte e la voce restano i cardini della musica di Mazzoni ma, in questo secondo capitolo discografico, la batteria e le chitarre elettriche si fanno più presenti e incalzanti dando più colore alle canzoni. È un disco più potente e vario negli arrangiamenti di quello precedente ed è in grado di mettere maggiormente in risalto le caratteristiche di questo artista che trova la sua naturale espressione nelle esibizioni dal vivo.
Le canzoni testimoniano una evoluzione nella scrittura di Mazzoni. Influssi della tradizione cantautorale francese, accenni tex-mex e di musica popolare si mischiano dando vigore e imprevedibilità al disco. Brani a volte nostalgici, conditi con manciate di disillusioni e cose ormai perdute, altre volte visionari ed evocativi, trasmettono sensazioni ed emozioni forti. Il disco evidenzia la buona capacità raggiunta da Mazzoni nel costruire immagini originali e rappresentative di un percorso compositivo importante. Anche in questo progetto è fondamentale l'esperienza di Luca A. Rossi (Üstmamò, Giovanni Lindo Ferretti) che cura la produzione artistica e suona basso, chitarre elettriche e acustiche, cembalo. A contribuire alla realizzazione del disco, firmato dalla Gutenberg Records/Primigenia Produzioni Musicali, sono Simone Filippi (batteria), Mirko Zanni (chitarra elettrica), Michael Mac Bello (batteria), Dominic Palandri (chitarra), Romy Chenelat e Angus Palandri (cori). 
A presentare il nuovo disco è lo stesso Emiliano Mazzoni in questa intervista.




Sono passati due anni da "Ballo sul posto". Leggendo sul retro della copertina si intuisce che è stato un lavoro molto lungo ed elaborato. È così o ci sono stati degli eventi che ti hanno costretto a prendere tempo?

«Ci sono stati degli eventi esterni che hanno condizionato la genesi di questo disco. Dopo nemmeno sei mesi dall'uscita di "Ballo sul posto" abbiamo iniziato a registrare con molta calma, a casa mia, e a maggio del 2013 tutto il materiale era già registrato. Poi è subentrata la ristrutturazione della casa e ho dovuto sospendere tutto per un bel po'. Non amo stare molto tempo sulle cose ma in questo caso, paradossalmente, era la maniera per far prima».

Pianoforte e voce continuano ad essere elementi portanti della tua musica ma, rispetto al disco precedente, batteria e chitarre elettriche colorano maggiormente le tue canzoni…

«Erano canzoni che immaginavo un po' più movimentate e alla fine son soddisfatto. Una volta terminato "Ballo sul posto" avevo già i pezzi e le idee per "Cosa ti sciupa", mantenendo sempre lo stesso modo di lavorare in casa. Così ora ho già da parte i pezzi per il prossimo disco, ma sarà molto diverso».

Anche in questo secondo episodio discografico ti sei avvalso della collaborazione di Luca A. Rossi. Quanto è importante questo sodalizio per te e la tua musica?

«È fondamentale! Mi ha aiutato molto a sviluppare quello che avevo solo abbozzato costruendo i pezzi voce e piano. Poi dalla sua esperienza ho imparato molto ed è stato molto disponibile ad attrezzare la mia casa con quello che gli serviva per il suono che aveva in mente. Tutte cose che io ho poi capito dopo. Devo molto a Luca». 

Nelle canzoni del nuovo disco le figure femminili sono le protagoniste…

«Me ne accorgo ora. Per me queste canzoni parlano di cose che accadono e "Cosa ti sciupa" vuol far uscire certe difficoltà. Certo è che alcuni tribolamenti amorosi sono protagonisti e le figure femminili sono lì a renderli possibili cercando su tutto la semplicità nei testi. Quando riunisco le canzoni da mettere in un disco lo faccio cercandone un sapore comune, che però a volte non so dire a parole quale sia».

È curioso come l'ambiente in cui uno vive possa condizionare anche il pensiero e la scrittura. E mi spiego meglio. Nelle tue canzoni non c'è quasi traccia di ambienti cittadini, con tutte le conseguenti problematiche, mentre la natura e le fotografie di posti a te più familiari sono uno dei cardini della tua scrittura. Cosa ne pensi?

«Penso che mi dispiacerebbe un po' se fosse completamente così. Non posso sapere cosa farò, ma vorrei scrivere anche altre cose, già il prossimo lavoro sarà molto scuro e vorrei che fosse ambientato in nessun luogo, ecco, vorrei scrivere canzoni che siano ambientate in nessun luogo. Però probabilmente è vero, l'ambiente influenza molto e bisognerebbe essere sempre pronti ad andarsene non appena questo diventa un limite, oppure riuscire ad essere bravi nel farlo uscire sempre sotto forma di sincero spirito creativo».

C'è un tema comune che lega le canzoni di "Cosa ti sciupa"?

«Sì, il non riuscire ad acchiappare il brivido che ti dice "eccomi sono qua, prendimi" e il rammarico che rimane. L'impossibilità di compiere l'ultimo passo verso un'ispirazione che ti capita di ricevere, a volte per un limite inevitabile, a volte perché siamo solamente esseri umani e sbagliamo o rinunciamo. "Cosa ti sciupa" è un 'rovello', con un piede dentro una domanda e l'altro dentro un rimprovero».

Quanto c'è di autobiografico in queste undici nuove composizioni?

«Di sicuro molte cose, ma non saprei indicare qualcosa di preciso. Quando scrivo non ho un percorso, ma lascio che il testo si distenda richiamando quello che manca, e se poi lo merita arriva alla fine del viaggio. Quindi per forza le mie esperienze intervengono, ma cerco di farglielo fare senza apparire, a volte riuscendoci a volte no. Forse è "Ragazza aria" il brano dove si scoprono di più. Diverso è il discorso per "Non rivedrò più nessuno" che è abbastanza giornalistica e parla di un fatto accaduto».

Mi piace la frase <Lasciate alla bellezza il vostro cuore e vi soccorrerà non sono favole> con cui si conclude "Canzone di bellezza". È un invito o una constatazione?

«È entrambe le cose. Arriva alla fine di una canzone dove una sfilza di immagini arrivano e vanno, cercando in modo un po' fantasmagorico di recuperare una dimensione intima, cercando di fotografare quei momenti dove ci si ferma a pensare un istante prima che tutto sfugga. Forse son cose solo immaginate o dimenticate, ma che nell'illusione costruiscono un'idea che si va a consolare sulla frase finale. Ha uno stile che amo e che mi ha sempre accompagnato anche nelle esperienze precedenti al progetto solista».

Il brano che in un certo modo esce dagli schemi è "Nell'aria c'era un forte odore" con quella sua cadenza tex-mex. Ce ne parli?

«È la storia di un buon ragazzo che avvilito dal mondo decide di abbandonarlo. Mi è uscito così, con sul finale la sorpresa di cadere fra le braccia di un amore dimenticato. La musica mi ha suggerito questa storia, non so poi perché. Musicalmente è uscito proprio quello che immaginavo mentre mi venivano gli accordi (semplicissimi...) ed era una strada divertente».

"Tornerà la felicità" è una canzone molto intensa ma per te cosa è la felicità?

«Non so rispondere, mi dispiace. E non sono nemmeno sicuro che torni né che ci sia mai stata. Di sicuro è un problema».

Il disco si chiude con l'emozionante "Non rivedrò più nessuno". Come è nata questa canzone?

«È nata da una storia accaduta a un mio prozio, ed è andata proprio così come viene raccontata. Noi la conosciamo perché le persone che erano su quella corriera, una volta tornate a casa, hanno raccontato che quel ragazzo piangeva e tra sé diceva "non rivedrò più i miei amici, non rivedrò più nessuno". Dopo qualche tempo si scoprì che aveva ragione. Quando mi è uscita la musica ho provato a ragionar su quel fatto e in un attimo è riuscita così».

Che cosa vorresti che la gente sentisse nella tua musica?

«Credo che la musica sia di chi la ascolta e ognuno deve farne quel che vuole. Credo che sia un linguaggio che può suonare ampio o meno ampio a prescindere dalle volontà degli artisti».

Pochi giorni fa, Paolo Serra ha scritto su Il Fatto Quotidiano un articolo sulla musica e sui format televisivi. Mi sono appuntato questo passaggio: «E non basta più saper fare il giro di Do con la chitarra, adesso devi imparare a curare la tua immagine, ammiccare con disinvoltura alle telecamere, muoverti nel modo giusto sul palcoscenico e anche fuori, e soprattutto sul web. Perché i casi sono due: o diventi virale, oppure gli anticorpi del sistema ti rigettano negli ultimi dieci piano-bar sopravvissuti alla crisi». Cosa ne pensi di questa affermazione?

«Penso che sarebbe bello dire che ha ragione dimostrando che ha torto. Penso anche però che siano le canzoni a dover trainare l’artista e il pubblico a sostenerlo, se non c'è pubblico puoi ammiccare a quel che vuoi. Ma non lo so poi mica, non sono un esperto».




Titolo: Cosa ti sciupa
Artista: Emiliano Mazzoni
Etichetta: Gutenberg Music/Primigenia
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche e testi di Emiliano Mazzoni)


01. Canzone di bellezza
02. Ma perché te ne vai
03. Diva
04. Un'altra fuga
05. Ciao tenerezza
06. Hey boy
07. Ragazza aria
08. Non lasciarmi qui
09. Nell'aria c'era un forte odore
10. Tornerà la felicità
11. Non rivedrò più nessuno



giovedì 6 novembre 2014

"Che storia!" le Soms cantate da Augusto Forin





Nell'Europa del 1800, in particolare in Germania, Inghilterra e Francia, nacquero le prime forme di mutualità e di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo l'ondata rivoluzionaria del 1848 anche sul territorio italiano si registrò un notevole incremento nel numero delle Società Operaie di Mutuo Soccorso. Le persone vi aderirono volontariamente su base territoriale o professionale per scopi di mutuo aiuto. In Italia, attualmente, le Soms attive sono circa duemila mentre in Liguria se ne contano centosettanta.  
Sulle Soms e sulla loro storia è stato scritto da Ivano Malcotti uno spettacolo di teatro-canzone, dal titolo "Soms che storia!", che racconta l'importanza che hanno avuto nel tessuto sociale, dalla loro nascita ai giorni nostri. Le canzoni della pièce sono state invece firmate da Augusto Forin e raccolte nel disco "Che storia!". Brani dal sapore popolare che richiamano le atmosfere delle tipiche giornate trascorse nelle Società, in cui convivialità, incontro e discussione recitano ancora oggi un ruolo fondamentale. Gli arrangiamenti non sono complessi e il disco scorre veloce e gradevole trasportando l'ascoltatore al tavolo di chi racconta e canta storie, magari davanti a un buon bicchiere di vino. Non per questo gli argomenti trattati sono superficiali o di poca importanza. Nelle canzoni, i cui testi sono firmati da Malcotti e adattati da Forin, si parla anche di gioco d'azzardo, società dei consumi che impoverisce il mondo, immigrazione e povertà.
In questa nuova avventura discografica, Forin ha scelto come compagni di viaggio il mandolinista Carlo Aonzo, Sandro Signorile, impegnato alla mandola e al dobro, e Mirco Pagani alle percussioni e glockenspiel. A questi si sono aggiunti Patrizia Litolatta Biaghetti (voce recitante), il Coro degli Agitatori, Monica Astengo e Valter Mereta del Gruppo Città di Genova. 
Nell'intervista che segue Forin risponde alle domande sulla genesi di "Che storia!" e sul suo rapporto con le Soms.



Ci eravamo lasciati parlando di un tuo nuovo progetto musicale ed eccoci ora con in mano l'album "Che storia!". Ce lo vuoi presentare?

«"Che storia!" raccoglie tutte le canzoni dello spettacolo "Soms che storia!" scritto da Ivano Malcotti. Quest'album ha una storia speciale. Ivano aveva trovato una piccola sponsorizzazione nel Gruppo Città di Genova e così decidemmo di utilizzarla per produrre un cd con le canzoni della pièce da vendere nei nostri spettacoli per autofinanziarci. Avevo coinvolto Bruno Cimenti (fonico che ha registrato e mixato l'ultimo lavoro di Max Manfredi, "Dremong") e con lui programmato di iniziare le registrazioni lo scorso novembre. Causa miei problemi di salute è saltato tutto. Nel frattempo Giotto Barbieri, uno degli Agitatori Culturali Irrequieti che di mestiere fa il regista, si stava occupando di realizzare un video promozionale per presentare "Soms che storia!". Occorreva quindi registrare almeno un brano dello spettacolo. Allora il nostro "Marx" (è lui, Giotto che appare truccato da Marx sulla copertina di "Che storia!") ha pensato di contattare un amico fonico così da avere velocemente la demo di una canzone da usarsi per il videoclip. Caspita! L'amico fonico era Alberto Parodi. Proprio l'Alberto Parodi del famoso studio di Mulinetti, quello che ha registrato dischi come "Aguaplano" di Conte o "La pianta del te" di Fossati. Ci siamo incontrati con Alberto che, una volta ascoltato il nostro progetto, si è offerto non solo di registrarci una demo ma addirittura di produrci il cd con tutte le canzoni. Non ci siamo fatti scappare l'occasione e nel giro di due settimane abbiamo avuto in mano il master di "Che storia!"».

Quando è nato il sodalizio con Ivano Malcotti?

«Con la mia compagna Patrizia abbiamo assistito ad uno spettacolo scritto da Ivano per il quale avevamo realizzato la grafica delle locandine. A fine rappresentazione lo abbiamo avvicinato ed è bastato un breve scambio di battute per capire che poteva essere la persona giusta per far parte del nostro gruppo di Agitatori Culturali Irrequieti Gian dei Brughi. È così che è iniziata la collaborazione».

A chi è venuta l'idea di scrivere uno spettacolo di teatro-canzone dedicato alle Soms?

«L'idea è di Ivano. Tra i numerosi testi teatrali che aveva nel cassetto c'era anche questo dedicato alla storia delle Società Operaie. Insieme l'abbiamo rivisto, aggiunto le canzoni e iniziato a proporlo con il gruppo degli Agitatori Culturali Irrequieti. All'inizio in forma di sola lettura ma via via con l'aiuto di Daniela Borsese, che è una degli Agitatori e anche lei regista, abbiamo provato a rappresentarlo diventandone gli interpreti. Alla fine è venuta fuori una divertente pièce teatrale che sta riscuotendo un discreto successo».

Qual è lo scopo dello spettacolo?

«Lo scopo è quello che dovrebbe avere ogni operazione artistica e cioè trasmettere emozione agli spettatori. Il testo si snoda tra nozioni storiche, considerazioni sociali, macchiette e siparietti, si brinda a Don Gallo e a Gino Strada e ci sono comizi di Marx, Garibaldi e pure di Mussolini: insomma cerchiamo di far sorridere e far riflettere. Noi sicuramente ci divertiamo e questo al pubblico arriva».

So che avete anche preparato del materiale per le scuole…

«In realtà è nato prima il progetto formativo per la scuola ideato e curato da Cristiana Ricci. Sulla scia di quel progetto Ivano ha scritto il testo teatrale di "Soms che storia!". Lo spettacolo diventa così anche un mezzo per avvicinare e coinvolgere i giovani, portare nelle scuole e far conoscere quei valori fondamentali per la nostra società: la solidarietà, la mutualità, la partecipazione indispensabili per perseguire il benessere comune».

Trovo che le Soms, con la loro idea fondante del mutuo soccorso, siano ora più che mai un paracadute importante per tante persone. Cosa ne pensi?

«Questa nostra società negli ultimi anni è sempre più individualista. Gli stessi social network non fanno che aumentare l'isolamento delle persone che credono di esprimere un'opinione con un "mi piace" o postando un commento su un blog. Alla fine la loro azione sociale finisce lì, nel fissare un display, sempre più alienati dalla realtà. Ma ci fai caso? Guardati intorno, per la strada, al ristorante, ovunque vedi persone che non si guardano neppure più in faccia intenti a digitare chissà quale importantissima verità. La realtà è che queste persone sono sempre più sole e sempre meno influenti sulle sorti della società in cui vivono. È a questo punto che le Soms possono tornare ad avere un ruolo fondamentale. Più che un paracadute, come le definisci tu, una zattera di salvataggio, un luogo di incontro dove trovare vero confronto e aiuto concreto».

Le Soms possono attirare anche i giovani?

«Certo, non devono fare altro che mettere in pratica i principi dei loro statuti, principi sui quali le Soms sono nate. Rischio di ripetermi ma la solidarietà, il mutuo soccorso ha un potere di coinvolgimento fortissimo, soprattutto nei giovani. Guarda quanta generosità hanno dimostrato gli angeli del fango a Genova. Sono tutti giovani, uniti dalla voglia di fare concretamente qualcosa di utile per il prossimo, per chi si trova in difficoltà. Forse occorre da parte delle Soms uno sforzo maggiore per far conoscere i valori che rappresentano. Credo che il nostro progetto musical-teatrale "Soms che storia!" sia un importante passo in questa direzione».

Qual è il tuo rapporto con le Soms? Ne hai mai fatto parte?

«Ne ho fatto parte e ancora ne faccio parte. Attualmente sono il segretario della Società Operaia Mutuo Soccorso di Sussisa, paese dove abito».

Per questo progetto avete avuto il supporto del Circolo Culturale Irrequieti "Gian dei Brughi". Puoi dirci qualcosa in più?

«La giusta denominazione è "Agitatori Culturali Irrequieti Gian dei Brughi". È una creatura nata da un'idea di Patrizia Biaghetti. Sotto quel nome io e Patrizia abbiamo cominciato ad organizzare eventi culturali in nome di Gian dei Brughi, personaggio del Barone Rampante di Italo Calvino. Gian dei Brughi è un brigante che una volta venuto in contatto con la cultura si redime. Noi crediamo nel potere salvifico dell'arte e intorno a quest'idea ci siamo ritrovati a coinvolgere persone creative e sensibili con le quali lavoriamo dando vita a molti eventi e sono veramente tanti quelli che abbiamo organizzato e che abbiamo in programma. Ti invito a visitare il nostro sito www.giandeibrughi.it per averne un'idea più completa. Comunque nello specifico il progetto "Soms che storia!" ha avuto anche l’importantissimo apporto del Gruppo Città di Genova che ci ha aiutato economicamente».

Ad accompagnarti in questa nuova avventura discografica sono Carlo Aonzo, Sandro Signorile e Mirco Pagano. Come è nato questo quartetto?

«Volevo dare alle canzoni un sapore ruspante e popolare, come se alcuni amici si ritrovassero quasi per caso al tavolo di un bar per suonare insieme. Non ho cercato complessi arrangiamenti per i brani, anzi Carlo ha eseguito le sue parti praticamente in presa diretta seguendo solo alcune mie indicazioni a voce. Sono molto contento che Carlo abbia partecipato al progetto perché la sua incredibile musicalità e bravura erano proprio il tocco che cercavo. Sandro, con cui porto avanti il progetto delle Ristampe di Tex, ha aggiunto alcune sonorità a me care come quelle della mandola e del dobro. Mirco è il batterista con cui suono nel mio gruppo di jazz progressive, i Cripta Quartetto. Con Mirco ho un'intesa che dura da una vita e a lui ho chiesto di abbandonare per un momento i tamburi e cimentarsi con un cajón, strumento sicuramente molto più consono in questo contesto».

Nel disco ci sono anche canzoni molto attuali come "Il paese delle slot" che punta l'indice contro il gioco d'azzardo e lo stato che "s'ingrassa"…

«Come dicevo prima il testo della pièce tocca molti temi sociali. Uno di questi è il disagio, è la dipendenza creata dal gioco d'azzardo. Il ritornello della canzone, "al tuo gioco non ci gioco" è stato adottato dal Comune di Sori ed è diventato lo slogan per una campagna contro il gioco d'azzardo. La canzone è piaciuta anche al movimento NoSlot che l'ha inserita sulle pagine del suo sito (http://www.noslot.org/e-un-paese-triste-che-vive-delle-bische/)».

"Un santo ci vuole" è una sorta di appello all'arrivo di un santo, però molto terreno, con tutti i difetti tipici dell'uomo. Verrebbe da dire che non ci sono più i Santi di una volta…

«Il Vaticano continua a sfornare santi! Evidentemente i fedeli hanno bisogno di nuovi santi a cui rivolgersi perché quelli di una volta forse non riescono più ad esaudire le preghiere che ricevono. Papa Francesco ne ha da poco beatificato alcuni. Cosa importa se uno di questi, fino a poco tempo fa era sorridente a braccetto con Pinochet. Un santo ci vuole!»

In "Cambiare il mondo" l'utopistica visione si scontra con la realtà dei fatti e con il fallimento di un progetto. È ancora realistico pensare che ci possa essere una nuova via da percorrere?

«Questa domanda aprirebbe un discorso vastissimo, cercherò di rispondere in poche battute. Esiste una via da percorrere, ed è sempre la stessa. La magia del fare. Per cambiare il mondo bisogna cominciare a cambiare noi stessi. Dobbiamo prendere coscienza che la terra in cui viviamo è di tutti e che tutti dobbiamo rispettarla. Stiamo vivendo le conseguenze di una politica che ha avuto e continua ad avere come modello il consumismo. Continuiamo a sentire economisti che affermano il bisogno di ritornare a produrre, perché il mercato deve ripartire. Ma produrre cosa? Ripartire per dove? Questa società dei consumi non ha rispetto della vita, sta impoverendo questa terra e i suoi abitanti. Non è con un'automobile o un telefonino in più che potremo nutrirci ma solo la terra e i suoi frutti potranno sfamarci. Finché chi esercita il potere continuerà ad usarlo per il proprio tornaconto non si potrà mai arrivare ad un bene comune. L'utopia esiste solo per chi non ha il coraggio di un'ideale».

Nel brano "In tempi lontani" canti <…erano tempi tanto lontani, di lotta ai fascisti e ai padroni, erano tempi per clandestini, erano tempi da partigiani…>. Quali sono ora gli avversari contro cui lottare e i partigiani che possono farlo?

«Esiste sempre un oppressore da cui liberarsi. Oggi siamo schiavi del profitto, sono i poteri finanziari a decidere la nostra sorte. In realtà non è cambiato granché, la storia insegna, sono sempre i poveri che pagano. Servono guerre per fare profitto? Bene, quando hai le chiavi della dispensa non c'è niente di più facile che portare alla disperazione intere popolazioni per poi scatenarle una contro l'altra nel nome di presunti nazionalismi o devastanti fedi religiose. Servono braccia a basso costo? Bene, prendiamo i disperati di prima e li attiriamo lontano dalla loro terra con il miraggio di una vita migliore, se poi nel tragitto se ne perdono un po' poco importa, anzi meglio. Quelli che arrivano scopriranno amaramente di aver perso tutti i diritti e a quel punto è un gioco da ragazzi sfruttarli, leggi farli schiavi. I partigiani oggi sono coloro che sanno aprire gli occhi su queste realtà e non si lasciano incantare dai media; la vera lotta consiste nell'abbattere le barriere erette dal potere. Molte di queste sono culturali e una rivoluzione poetica sarebbe un'arma formidabile».

Oltre alle dieci canzoni, nel disco troviamo anche una bella poesia recitata da Patrizia Biaghetti…

«La poesia di Patrizia apre lo spettacolo "Soms che storia!". L'ha scritta di getto proprio in una società in Toscana dove stavo tenendo un concerto. Lei ha la capacità di cogliere i minimi particolari di un ambiente e ne ricava delle splendide immagini poetiche così come sa cogliere e descrivere le emozioni più intime».

Quali sono le prossime date in programma per poter assistere allo spettacolo?

«Per conoscere i nostri appuntamenti ti invito a visitare le pagine del mio sito (www.augusto.forin.name) o di quello dedicato allo spettacolo (chestoria.giandeibrughi.it)».




Titolo: Che storia!
Artista: Augusto Forin
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(Testi di Ivano Malcotti e adattamento e musiche di Augusto Forin, eccetto dove diversamente indicato)

01. Era un paese piccolino
02. Cambiare il mondo
03. Un santo ci vuole
04. Axi
05. Arriva lo statuto
06. Il paese triste
07. La colt di Garibaldi
08. In vino veritas
09. Tempi lontani
10. Centottantatreparole  [poesia scritta e recitata da Patrizia Biaghetti]
11. La banda della Soms




mercoledì 22 ottobre 2014

Paolo Saporiti canta il suo lungo percorso evolutivo





Ho avuto la fortuna di ascoltare Paolo Saporiti a "Queste piazze davanti al mare", festival musicale che ogni anno si celebra nel periodo estivo a Laigueglia, nella Riviera ligure, sotto la direzione artistica di Massimo Schiavon. È stata una esibizione chitarra e contrabbasso che mi ha piacevolmente sorpreso per gli arrangiamenti ricercati e mai scontati delle canzoni, i testi forti e a tratti visionari e naturalmente la bravura degli interpreti. Inevitabile quindi che mi sia venuta la mia voglia di approfondire la conoscenza di questo cantautore milanese che ha all'attivo cinque album, tutti cantati in inglese. Le canzoni del nuovo disco eponimo, pubblicato quest'anno dalla Orange Home Records di Raffaele Abbate, hanno invece la caratteristica di essere cantate in italiano, un novità per Saporiti.
Un disco ricco di idee e creatività compositiva che si dibatte tra opposti che potrebbero essere anche considerati inconciliabili ma che trovano la giusta miscelazione grazie anche al lavoro di Xabier Iriondo (Afterhours) che ne ha curato la produzione. E così l'improvvisazione e la dissonanza diventano complementari alla melodia e al folk, l'intimismo di certi episodi, molto in linea con la precedente produzione di Saporiti, si scontra con soluzioni ardite e di rottura. Contrasti musicali che viaggiano su binari paralleli a testi in cui l'autore affronta i propri limiti e i propri fantasmi in un percorso di lotta e sofferenza. Dodici brani che hanno permesso a Saporiti di raccontarsi, senza barriere linguistiche e filtri, e di fare i conti con il proprio vissuto e con le proprie radici familiari. 
Alla realizzazione del disco hanno partecipato in sala di registrazione Roberto Zanisi al bouzouki, Cristiano Calcagnile alla batteria, Luca D’Alberto alla viola e al violino, Stefano Ferrian ai sassofoni, lo stesso Xabier Iriondo che ha impugnato il basso e ha gestito l'elettronica.
La voglia di conoscenza mi ha portato a prendere contatto con Saporiti che è stato disponibile a parlarci del disco e della sua carriera. Il tutto è riportato nell'intervista che segue.




Capelli tagliati più corti, un album in italiano, ancora tanta sperimentazione. E' un periodo di cambiamenti sotto molteplici aspetti?

«Direi di sì ma vale un poco per tutta una vita, credo di averla impostata così, in fondo, un poco per scelta, come è forse capitato a tanti altri a un certo punto della propria esistenza. Una lunga serie di mutazioni e cambiamenti per sentirsi sempre più vivi e nuovi. In realtà ora i miei confini sono ben più definiti in ogni cosa che faccio e sono, e il gioco risulta essere sempre più facile e proficuo, anche da un punto di vista creativo. È come se, una volta conquistato uno stato dell'essere interiore sempre più certo e sicuro, tutto scaturisse in maniera più semplice. Credo che si debba in qualche modo raggiungere un piano in cui il giocare con se stessi e con le proprie facce risulti essere sempre più semplice e normale».

Per apprezzare appieno il tuo nuovo disco occorrono diversi ascolti. È una scelta coraggiosa in questi tempi di jingles. Lo sai che rischi di non arrivare mai in testa alle classifiche?

«Lo so e fa parte anche questo di una scelta. Amo giocare, come ti dicevo prima, ma in un campo di coerenza. Il vendersi non ne fa parte e, amando un certo tipo di musica e letture o pensieri o di autori in senso lato, non riesco a sposare un altro tipo di causa. Vorrei che il mondo seguisse questo trend e non il contrario».

Dopo cinque album in inglese la scelta di cantare in italiano rende però tutto più semplice. Sei cosciente che così facendo hai reso pubblico una parte della tua vita e delle tue emozioni?

«Credo che il discorso riguardi soltanto una maggiore consapevolezza di questo aspetto. È quello che cercavo e che ho fortemente voluto e inseguito. Essere sempre di più me stesso e raccontarlo agli altri; ha a che fare con un discorso di verità e le acquisizioni sono state tante e lente, giorno per giorno. L'italiano rende, come dici, tutto ancora più diretto ma non credo in fin dei conti di essermi poi troppo nascosto prima. Chi voleva capire il mio messaggio, poteva senza troppi problemi. Non ho mai pensato alla lingua come a un vero ostacolo anche se oggi non posso che confermare la bontà e la necessità di questo che comunque considero un salto importante ed epocale per me e la mia vita».

Nel disco ci sono dodici canzoni che ti vedono combattere un dramma interiore. L'uomo triste e l'uomo felice sono impegnati in una continua lotta. Chi vincerà alla fine di questa epica battaglia?

«Io non credo che la felicità risieda da altra parte se non nella ricerca e nell’affrontare se stessi, i propri limiti e i propri fantasmi e spesso bisogna scontrarsi con un bel grumo di sofferenza. È una questione di volontà e di fede, di capacità di credere in un sogno e la conquista della meta prevede fatica e sofferenza. Lì sta la felicità. Il percorso è lungo, perfino metodico nella sua evoluzione, disciplinare e sicuramente disciplinato, ma i frutti che porta la voglia di emancipazione e di conquista della libertà, sono sempre felici, in qualsiasi forma poi essi vengano a esprimersi. Faccio parte di quelle persone che credono che solo dal vivere in maniera completa quello che si prova possa scaturire il bene e il buono».

Anche dal punto di vista sonoro si assiste a uno scontro tra il folk della tua chitarra acustica e una marcata sperimentazione. Quanto ha influito da questo punto di vista la tua collaborazione con Xabier Iriondo?

«Xabier l’ho scelto, una volta conosciuto. Ho apprezzato la sua ricerca, il suo modo di gestire una carriera e il suo modo di essere e per questo gli ho chiesto aiuto. Volevo tradurre un certo tipo di sensazione interiore che sento corrispondere tremendamente all'uomo contemporaneo, molto più di quanto tutti vogliano provare a fingere di non accettare e capire, negando la verità a se stessi o non ascoltando quel che faccio e suono io ma prima o poi qualcuno capirà, ne sono convinto».

Ho ascoltato con molto interesse la tua esibizione a Laigueglia in occasione del festival "Queste piazze davanti al mare" e mi ha incuriosito il testo di "Io non ho pietà". Che significato ha in generale e in particolare la frase ‹Perché non muori e non prendi me›?

«Perché non ti rinnovi, perché non ti ripulisci, cambi vita e scegli me in relazione al tuo passato, ai tuoi vissuti, anche i più angoscianti. È una cosa che chiedevo alla donna che amo ma che chiederei a tutti, compresi i miei genitori o a quello che ne rimane di loro. Il difetto più grande della società che abbiamo creato è la sfiducia totale nella figura del figlio, dei figli. Questo è un mondo di ex-padri, padri finiti o logori e madri stanche e annoiate, nella migliore delle ipotesi. I figli, che sono presente e futuro, sono concepiti già morti o soltanto come costole di se stessi o in funzione utilitaristica ed egoistica e questo è quello che mi uccide e che forse mi ha ucciso per così tanto tempo. Chiediamo uno scatto a questo mondo. È necessario, senza pietà, anche nel riconoscere e accettare le nostre zone d'ombra. Il gioco del nascondino ha stufato davvero, la scissione e la rimozione hanno perso ed è ora che chi ha sbagliato si tolga dal campo e lasci giocare chi ne ha voglia e diritto».

Hai presentato "Erica" dicendo che è una canzone che risale a tanto tempo fa. Anche in questo brano è presente il continuo gioco di contrapposizioni tra un messaggio positivo e uno negativo. ‹Erica come posso riuscire ad amare se sei ancora qui› ne è una sintesi straordinaria…

«Vero. Amare e rendersi conto di non esserne ancora capaci e accettare la messa in discussione e lavorare per un cambiamento profondo. Come tanti, la figura materna è una figura importante, bisogna riuscire ad affrancarsene e cercare delle nuove vie e ipotesi di relazione. Ci si nasconde dietro false acquisizioni date per scontate ma non è oro tutto quello che luccica e anche dietro la sensazione di una grossa passione o amore non è detto che risieda la verità».

Entra subito nella carne la rullata di batteria che apre "Come hitler". Un brano di poco più di un minuto e mezzo di durata che sbeffeggia simbolicamente il Führer "dai baffetti sporchi" ma che penso abbia un significato ben più ampio. Mi sbaglio?

«Assolutamente no. "Come hitler”" parla di qualsiasi forma di sopruso, manipolazione, coercizione fisica o psicologica che sia. Odio chi usa il proprio potere o la propria posizione a fini personali e che per fare ciò violenta, abusa o prevarica. Immagina due file di ragazzi e ragazze in collegio e il precettore che li picchietta e insidia col suo passo riconoscibile fra mille nelle loro memorie. Vorrei che questo tipo di vissuti scomparisse dalla faccia della Terra e che la gente sia sempre più consapevole dei danni che può arrecare. Ci vuole più rispetto a questo mondo».

"Ho bisogno di te" segna una rivincita verso chi ha condizionato la tua vita in questi anni o è una dichiarazione di guerra?

«Tutte e due le cose, una dichiarazione di intenti a fronte di un comportamento, un'azione o un modo di essere col quale volente o nolente ho dovuto confrontarmi negli anni. Parla di colleghi, case discografiche, amore e odio e della necessità a volte perversa di avere a che fare anche con l'aggressore, nella speranza di una pulizia dalla sporcizia. Credo che manifestare la rabbia, quando ce n'è, sia una delle prime acquisizioni e vie per la libertà, il che non vuol dire essere violenti o rispondere alla violenza e all'ignoranza con la violenza e l'ignoranza ma concedersi di sentire e di ascoltarsi al fine di crescere e l'arte è uno degli strumenti che l'uomo si è dato a disposizione e di cui vado fiero in quanto appartenente alla specie».

Ascoltando "Caro presidente" mi sono chiesto se sei credente?

«Lo sono stato ma nel modo sbagliato. Mi avevano insegnato a immaginare un mondo in cui Dio risponde positivamente alle tue preghiere e richieste prima o poi se ti comporti bene e preghi e ti penti o fai del bene o altro, vai a Messa, etc. Ora so che la fede, di qualsiasi tipo sia, non ha aspettative e non prevede risultato: c'è se c'è, se non c'è, non c'è».

Con "In un mondo migliore" lasci aperta una porta verso il futuro. Quali sono le tue speranze?

«Che il mondo cambi grazie alla nostra voglia di farlo. Prima di tutto bisogna che la gente ammetta che così non va, poi si vedrà. Per ora mi accontenterei di questo, una messa in discussione di tutti o buona parte degli status symbol a cui ci hanno e ci siamo piegati e abituati e la presa di coscienza che non tutto il nostro passato è da buttare, anzi, e che il bruciare libri, dischi, musica, teatro, cinema e quadri non porta e non porterà o mai ha portato alcunché di buono all'uomo e alla sua vita sulla Terra».

Sulla copertina sono raffigurati tuo papà da piccolo e tuo nonno. Anche nel libretto ci sono altre foto della parte maschile della tua famiglia. Che significato hanno queste foto e perché nessun ricordo delle donne della tua famiglia?

«In realtà sul posteriore c'è anche la bisnonna, oltre a bisnonno e nonno, mio padre è nel booklet interno ma hai ragione, questo voleva essere un tributo alla parte maschile della mia famiglia, quella che mi ha donato manualità e creatività a mio modo di sentire e che mi ha messo nella condizione di poter sognare e osare quello che altri rifuggono, un percorso diverso e indipendente».

Cosa può trovare l'ascoltatore nel tuo disco?

«Me e se stesso attraverso me o almeno, spero, qualche spunto utile e qualche forma di identificazione positiva con le proprie emozioni profonde».


Titolo: Paolo Saporiti
Artista: Paolo Saporiti
Etichetta: Orange Home Records
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce
(Testi e musiche di Paolo Saporiti)

01. Come venire al mondo
02. Io non ho pietà
03. Cenere
04. Sangue
05. Come hitler
06. L'effetto indesiderato
07. Ho bisogno di te
08. Erica
09. In un mondo migliore
10. Caro presidente
11. P.S.



lunedì 6 ottobre 2014

La disperata "Beggar town" dei Cheap Wine




Diciotto anni di musica, concerti dal vivo e dieci dischi pubblicati fanno dei Cheap Wine una delle band indipendenti più longeve del panorama musicale italiano. Il gruppo pesarese, guidato da Marco Diamantini, ha presentato in questi giorni il nuovo atteso disco intitolato "Beggar town", che arriva a quasi due anni di distanza dal precedente "Based on lies". Se i personaggi del disco pubblicato nel 2012 erano travolti e sconvolti dall'inaspettato peggioramento delle loro condizioni di vita, le figure presenti in "Beggar town" hanno preso coscienza della situazione e fanno i conti con la loro esistenza, con luoghi pieni di desolazione e smarrimento, con la prospettiva di una vita fatta di lotte per garantirsi la sopravvivenza. Gli stati d'animo dominanti sono frustrazione, rabbia, disperazione e cinismo ma a questi si uniscono potenti squarci di luce, momenti di speranza e sogni. Nei testi, di una importanza forse anche superiore alla musica stessa, si passa dallo sconforto più cupo alla speranza più vivida. Situazioni e stati d'animo che condizionano anche la musica, ricca di sfumature, che appare nella sua totalità più cupa rispetto al lavoro precedente. Potente è la sezione ritmica affidata al bassista Alessandro Grazioli e al batterista Alan Giannini, così come altrettanto importanti sono le incursioni chitarristiche di Michele Diamantini e il tappeto sonoro messo sul piatto delle tastiere di Alessio Raffaelli.
"Beggar town" è un disco intenso, compatto, crepuscolare che necessita di attenzione per essere apprezzato e interiorizzato ma che ha grandi potenzialità per rimanere a lungo nella memoria di chi lo ascolta. La grafica è firmata, come nel disco precedente, da Serena Riglietti, che ha curato le copertine dell'edizione italiana di "Harry Potter" ed è una delle illustratrici più apprezzate in ambito nazionale. Nel libretto, a conferma dell'importanza dei testi scritti da Marco Diamantini, sono riportate anche le traduzioni in italiano.
Nell'intervista che segue Marco Diamantini ci presenta il nuovo disco dei Cheap Wine.



Nell'era in cui gli U2 regalano le loro canzoni, voi siete rimasti al cd. Siete all'antica ma trovo che ci sia molto più amore nelle canzoni di "Beggar Town" rispetto a quelle abbastanza fredde del gruppo irlandese...

«Personalmente il disco degli U2 non l'ho ascoltato, non mi hanno mai interessato più di tanto, neanche ai temi d'oro. Sul fatto che ci sia più amore nelle nostre canzoni penso che tu abbia ragione, gli U2 hanno raggiunto un tale stato di business che credo che gli affari siano diventati più importanti della musica. Cosa che ovviamente per noi non è. Noi andiamo avanti da tanto tempo proprio perché abbiamo una passione per la musica che supera qualsiasi altra cosa. In tutto quello che facciamo cerchiamo di metterci sempre la massima cura. Infatti, per questo disco abbiamo rinnovato il sito, in questi giorni è uscito il video, abbiamo curato la confezione del cd. Insomma cerchiamo sempre di fare il massimo e di offrire un prodotto che possa competere con i gruppi che hanno un budget diverso dal nostro e, allo stesso tempo, vogliamo dimostrare rispetto nei confronti di chi ci segue e magari acquista quello che facciamo. Per noi è importante che dalle canzoni traspiri il nostro amore per la musica».

Quando ho sentito la prima volta il vostro ultimo disco mi ha fatto tornare in mente la buona musica degli anni Settanta, quella che ha fatto la storia, che si sentiva con la puntina che correva lungo i solchi del vinile…

«Ce lo hanno chiesto in tanti ma il vinile ha costi proibitivi e non ce lo possiamo permettere. Abbiamo già speso tanto, anche perché oltre al cd ci vuole il video, il sito, e tutta una serie di altre cose. Nessuno di noi è ricco anzi, siamo due disoccupati e il più ricco del gruppo prende lo stipendio di un operaio, questo per farti capire la situazione».

Alcuni gruppi e musicisti si affidano al crowdfunding. Voi invece avete voluto fare a meno dell'aiuto dei fans…

«Siamo contrari al crowdfunding. È una formula che non ci piace e non approviamo. Lo potremmo utilizzare solo se fossimo proprio ridotti nella condizione di non poter produrre assolutamente niente. Ma fino a quel momento andremo avanti per la nostra strada, mi sembra più seria. Chiediamo alla gente di acquistare il nostro cd solo se piace, non per una opera di carità o elemosina. Ci lascia perplessi anche vedere che ci sono band che hanno tutti i mezzi per fare da soli e che invece usano quest'altro metodo».

Torniamo alla musica degli anni Settanta…

«Non credo che questo disco sia musicalmente anni Settanta, quello che forse richiama è il modo di suonare. C'è una intensità strumentale che il mercato attuale non vuole, vengono richiesti motivi più accattivanti, suonati in maniera più leggera, più orecchiabili, cose che vanno via. Noi siamo andati controcorrente anche in questo. Siamo cinque appassionati di musica, non facciamo calcoli, abbiamo suonato questo disco nel modo in cui volevamo e secondo me ha una intensità di suono che non si riscontra al giorno d'oggi. È un disco che richiede attenzione, tempo, non è un usa e getta, non è una cosa immediata, ci vuole l'atmosfera giusta, non lo puoi mettere come sottofondo. È un disco che può anche risultare difficile per alcuni e ancora di più per i tempi della vita moderna che non ti permettono di dedicare più di venti minuti al giorno all'ascolto di un disco. Ecco, è fuori dal tempo e probabilmente è anni Settanta proprio perché una volta il disco era una parte centrale nella giornata di una persona. E questo disco è fatto con quella logica».

Trovo che le canzoni siano costruite molto bene e che non si disperdano con gli ascolti. Quanto avete lavorato per arrivare a questo ottimo risultato?

«Il disco è frutto del lavoro di un anno, forse qualcosina in più. Poi ovviamente ci rientrano diciotto anni di musica, di attività, di esperienze personali, di ascolti. C'è stata una selezione molto severa delle canzoni perché inizialmente ce ne erano una quarantina. Abbiamo dovuto incastrare gli impegni di tutti per fare un lavoro serio su questo disco e siamo stati facilitati dal fatto, e io mi tiro fuori, che gli altri quattro componenti del gruppo sono veramente dei musicisti di primo livello. Hanno una preparazione e un gusto artistico che hanno permesso di fare quello che avevamo in testa. Musicisti bravi ce ne sono migliaia, la discriminante è riuscire a fare la cosa giusta al momento giusto e con il giusto feeling, ed è una cosa che sanno fare in pochi».

Dimmi se sbaglio ma mi pare di avvertire nelle prime tre-quattro canzoni una sorta di prosecuzione delle tematiche affrontate nel precedente disco, per poi svoltare verso una visione, non dico ottimista, ma che offre, seppur a fatica, una via di uscita con un futuro ancora da scrivere…

«In realtà diciamo che c'è un filo conduttore a livello di testi che lega "Beggar town" al precedente "Based on lies". Il fatto però che tu lo abbia rilevato nelle prime canzoni è casuale perché, in realtà, la scaletta del disco è stata decisa in un secondo tempo. Non c'è stata una logica relativa ai testi, nella scaletta abbiamo pensato più alle atmosfere musicali. In "Based on lies" è descritta la sorpresa di trovarsi catapultati improvvisamente in nuova situazione, condita da sentimenti quali paura, smarrimento e disperazione. In "Beggar town" si prende atto della situazione e a questo punto la disperazione e lo smarrimento non servono più, serve soltanto cercare una reazione per quanto possa essere difficile, duro e complicato. Gli sprazzi di luce ci sono perché c'è l'esortazione a non arrendersi. Anche nelle difficoltà peggiori non possiamo rassegnarci».

Quanto c'è di autobiografico in queste canzoni?

«Tutto è molto autobiografico perché coincide con la mia storia, con quella di alcuni componenti del gruppo. È chiaro che i testi, scrivendoli io, coincidano più con il mio vissuto che non con quello degli altri. Il fatto di essere disoccupato da oltre due anni è una cosa che si fa fatica ad affrontare e sostenere e quindi in questi dischi c'è tutto questo. C'è una sorta di strana contraddizione: in "Based on lies" la musica era più solare e i testi forse più scuri, in "Beggar town" la musica è abbastanza scura ma i testi lasciano trasparire un poco di speranza e di voglia di reagire e risorgere in qualche modo. Sono quindi due dischi legati da un tema comune ma musicalmente sono molto diversi».

L'ambientazione resta, almeno nei primi episodi, la città. Una città decadente dove mozziconi di sigarette, vetri rotti, pillole nere e nuvole di cocaina che sbuffano sono una triste cornice. Descrizioni di situazioni al limite dell'emarginazione che si vivono quotidianamente anche nelle periferie delle metropoli italiane. Cosa ci ha fatto cadere in questa spirale?

«Esprimo la mia idea e non so se coincida con quella degli altri componenti del gruppo, anche perché non parliamo molto di politica. Io sono convinto che ci siamo trovati in questa situazione per gli effetti del capitalismo. Non voglio fare un discorso ideologico, però non è stato mai accettata, soprattuto in Italia, l'idea che nessuno debba rimanere indietro e questo ha fatto sì che molta gente finisse ai margini. In questo periodo poi si assiste a una ecatombe. Nella mia città, che è sempre stata piuttosto ricca, la Caritas sta lanciando appelli perché non ce la fa più a dare da mangiare a tutti, non ce la fa più a dare i vestiti usati a tutti, non ce la fa neanche più a dare le medicine a tutti quelli che non riescono più a permettersele. E la situazione sta arrivando al limite. Rispetto  alla maggior parte degli stati europei abbiamo un welfare inesistente e questo ha trasformato la vita delle persone e anche l'aspetto delle città».

La crisi economica certamente non ha migliorato una situazione già difficile…

«Chi governa deve pensare in modo solidaristico, capire che una persona non può essere lasciata morire di fame. Altrimenti tutta le persone che sono rimaste senza lavoro e sono in difficoltà cosa devono fare? Rapinare i passanti per procurarsi da vivere? Purtroppo c'è ancora una grossa fetta di popolazione che rifiuta un discorso di questo tipo. Sento tanti che si chiedono, ad esempio, perché bisogna dare il reddito di cittadinanza - che esiste in tutta Europa tranne che in Italia - a chi non fa niente. Ma chi non ha lavoro come fa a sopravvivere? O decidiamo per una soluzione hitleriana e creiamo delle camere a gas in cui porre fine alle loro sofferenze oppure bisogna che venga permesso loro di andare avanti e di vivere. E credo che l'abbrutimento delle città e dei valori morali partano da qua, da un individualismo sfrenato che non tiene più conto dei bisogni degli altri».

Qual è la ricetta per uscire da questa città di mendicanti e re dalla corona d'oro?

«Avere un pasto e un tetto sopra la testa sono cose che non si possono negare perché altrimenti si disumanizza la società. Se la società deve essere fondata su un contratto, su delle regole di convivenza, allora deve essere permesso alle persone di avere uno standard minimo di sopravvivenza. Ci sono i più ricchi e i meno ricchi ma non puoi permettere che ci sia chi muore di fame o persone che dormono su una panchina. Finché ci sarà tutto questo sarà difficile combattere il degrado. Una persona ridotta in quello stato diventa una specie di animale che ha fame e io l'ho provato sulla mia pelle. Mi sono reso conto che finché avevo un lavoro, il mio stipendio, una vita tranquilla, potevo dibattere su tanti temi nobili come il razzismo, i diritti delle minoranze, dei lavoratori, ma nel momento in cui ti trovi a pensare se il giorno dopo riesci a mangiare di tutti questi argomenti non te ne importa più nulla, pensi solo più alla sopravvivenza. Si disumanizza tutto e anche le grandi idee della civiltà occidentale vengono completamente azzerate. Non ho soluzioni, non è il mio compito, vedo però che nessuno sta facendo qualcosa di concreto, li vedo solo parlare in televisione, blaterare, lanciare slogan ma non si occupano della gente. I loro giochetti politici non interessano, adesso noi abbiamo fame».

Dopo quello che io chiamo il trittico cittadino si passa a "Lifeboat". Ma il capitano rimane debole e i marinai sono dei bugiardi, quasi fosse un naufragio a cui tutti assistiamo...

«Il mare torna spesso nelle mie canzoni anche perché vivo in una città di mare, per me è quindi una ambientazione consueta. Il mare è sempre una metafora molto efficace. In "Lifeboat" c'è questo mood della musica che mi ricordava le onde che lentamente scorrono verso la battigia quando il mare è calmo. Mi è venuto naturale scrivere un testo di questo tipo».

La prima potente luce di speranza ce la offrite con "Your time is right now". ‹Troverai la luce, lungo la strada. Troverai il sorriso, lungo la strada›. Ci sono voluti un disco e mezzo per dare qualche speranza?

«Pur essendo i miei dischi sempre ricchi di una sorta di inquietudine, fa parte di me, del mio carattere, del mio modo di essere, non mi è mai piaciuto trasmettere dei messaggi completamente privi di speranza. Nel disco precedente qualche sprazzo c'è anche se contemporaneamente ci sono cose tra le più tremende che abbia mai scritto, soprattutto in un paio di episodi. In "Beggar town" emerge di più perché, assorbita la botta, è necessario attrezzarsi per trovare la via d'uscita, altrimenti non si sopravvive. Il senso di questo disco è appunto cercare la via d'uscita in tutti i modi. Pur nelle difficoltà che sono tante, dobbiamo lottare. La resa non mi è mai piaciuta e non ci sarà mai».

Con "Claim the sun", una delle canzoni più belle del disco, fate un ulteriore passo avanti. Ci invitate a risvegliarci e a pretendere il sole, a trovare la forza per cancellare tutto il grigio e scoprire un colore nuovo ogni giorno. Se dovessi dare un consiglio da cosa dovremmo iniziare questa rivoluzione?

«Siamo sempre portati a vederci circondati da problemi e a sperare nel minimo consentito, anche nella sopravvivenza un po' grigia. Invece io penso che dovremmo pretendere, anche da noi stessi, dalla nostra vita di avere il meglio. Mi sembra di ricordare che Borges, in uno dei suoi racconti, parlasse di un uomo che in punto di morte diceva ‹il mio più grande peccato è stato non essere felice›. È a questo che dobbiamo ambire e non si tratta di una felicità materiale ma di un sentimento più profondo, spirituale. Con l'espressione ‹pretendi il sole›, invitiamo le persone a non accontentarsi ma di pretendere il meglio, di essere felici, di avere una forza vitale interiore che faccia amare la vita. Probabilmente è anche un po' una utopia, però in fondo il r'n'r è un inno all'utopia e io credo che anche la vita debba tendere all'utopia, la dimensione del sogno è fondamentale».

‹C'è una nuova frusta per gli schiavi. Ti spacchi la schiena per una paga da fame. Non hai nessun potere›, è questa la drammatica visione della condizione umana nella società capitalistica descritta in "Destination nowhere". E in questi giorni si parla anche dell'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Cosa ne pensi?

«Da qualche anno è in atto un processo che tende a instaurare un nuovo schiavismo e che ha una regia precisa. Per paghe ridicole le persone sono costrette ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. Ti propongono un piatto di minestra e devi anche ringraziare perché dietro di te c'è la fila di gente che prenderebbe il tuo posto. Approfittando della situazione disperata stanno togliendo tutti i diritti, il rispetto, e ti dicono vuoi una minestra al mattino e una alla sera allora spaccati la schiena e sei già privilegiato perché c'è chi non ha nemmeno questo. Vedo gente che si distrugge dal lavoro dalla mattina alla sera e poi non riesce ad arrivare alla fine del mese ed è una cosa allucinante. La forbice tra pochi ricchi e tanti poveri, persone che hanno finito di vivere, si è allargata enormemente. La frase di "Destination nowhere" è molto cruda ma è quello che sta accadendo. Hanno iniziato parlando di flessibilità, questa nuova parola che avrebbe garantito il futuro, poi hanno detto che dovevamo capire che non si poteva avere un lavoro per tutta la vita e che si doveva essere disposti a cambiare, poi hanno cominciato a dire che andava bene anche firmare contratti di tre mesi perché almeno si lavorava. È stato un processo iniziato nell'ultimo decennio o qualcosa in più. Hanno cominciato lentamente, piano piano, e adesso lo stanno portando a termine. Stanno distruggendo tutti i diritti, tutto il rispetto che c'era per chi lavorava e per chi non è nella posizione di dettare legge. E in tutto questo, la cosa più triste è che le persone o non se ne rende conto oppure l'approvano perché provvedimenti di questo tipo negli anni Settanta avrebbero scatenato una rivolta popolare».

Il tutto senza che ci sia una vera presa di coscienza da parte dei lavoratori. I grandi scioperi in Italia sono ormai un ricordo lontano…

«Stanno riuscendo a fare tutte queste cose anche perché non hanno bisogno di usare la forza. Attraverso i media hanno un potere di persuasione enorme, le persone non sono più in grado di ribellarsi anche perché per ribellarti ti devi informare e probabilmente molti non hanno neppure il tempo di farlo. Faccio fatica a vedere vie di uscita. Stiamo dando fondo ai risparmi non tanto dei genitori quanto dei nonni, nel momento che saranno finiti allora qualcuno si domanderà come farà a mangiare domani».

In "The fairy has your wings" canti <Il cielo è per volare, per abbandonare le zavorre che ci impediscono di essere liberi nel profondo>. Allora c'è la possibilità di riemergere ed essere protagonisti di un nuovo futuro?

«Quella canzone l'ho scritta per una ragazza che non c'è più e che era importante per noi. È un brano che ho dedicato a lei e anche quella frase ha qualcosa a che fare con lei. Comunque sì, anche la lettura che tu dai non è sbagliata. C'è questa speranza, la convinzione che un giorno le cose ritorneranno ad essere quello che ci aspettiamo che siano».

"Utrillo's wine" è il racconto di una storia vera. Che posizione assume all'interno del disco e quale è il suo significato?

«Il disco si intitola "Beggar Town", cioè città dei mendicanti, e Utrillo e anche Modigliani erano due di loro. Il che è una beffa se si pensa che questi due artisti sono morti nella povertà, mentre oggi le loro opere non hanno prezzo. Questa canzone racconta in maniera tragicomica, con un sorriso amaro, quella che può essere la realtà di persone costrette in quello stato. Pur di seguire la propria arte sono stati disposti a rinunciare a tutto, anche a morire di fame. In qualche modo ci identifichiamo in loro e abbiamo ammirazione per quello che hanno fatto».

La scelta di raccontare episodi e storie di persone realmente vissute non è una scelta nuova per te...

«L'avevo fatto anche in Spirits (2009) raccontando la storia del partigiano Silvio Corbari. Le storie dei partigiani sono sempre un po' retoriche, piene di sangue, e anche in quell'occasione avevo preferito raccontare un episodio ironico della vita di Corbari e della sua attività di partigiano. Magari ti strappa un piccolo sorriso ma ti fa ragionare su quello che certa gente ci ha lasciato e ha patito sulla propria pelle».

Particolarmente bella e significativa è la copertina. Il cane con la testa bassa e la pioggia fredda e acida trasmettono un senso di angoscia e solitudine…

«La copertina in realtà è tutto merito di Serena Riglietti, una illustratrice bravissima, forse la numero uno in Italia, conosciuta anche a livello internazionale. Molto semplicemente le abbiamo fatto avere il titolo del disco e i testi di alcune canzone e ha tirato fuori dal cilindro questa opera d'arte». 

Come si fa a restare per diciotto anni indipendenti e coerenti con la propria musica?

«Si potrebbe parlare due giorni di questo armento. Partiamo dal fatto che tenere insieme una band per diciotto anni senza i guadagni economici è una impresa quasi unica al mondo. Gruppi molto più ricchi e premiati non sono durati tutto questo tempo. Al primo posto c'è la passione per la musica, quella con la "p" maiuscola, quella vera che ti permea ogni momento della giornata. Da piccolo sentivo mio zio che strimpellava le canzoni di De Andrè e  mi sono innamorato del suono della chitarra, è una cosa che probabilmente è nel dna. Amore totale per la musica e anche una serietà professionale. Fin dal primo momento abbiamo affrontato la musica con lo spirito di una vera e propria professione, anche se non mi piace la parola, non l'abbiamo mai considerata un hobby. Ho portato avanti questo discorso pretendendo che questo fosse un principio inviolabile della band. Andare avanti in un modo più raffazzonato non mi ha mai interessato. E quindi anche nella scelta dei componenti della band c'è stata una selezione, abbiamo sempre tenuto in grande considerazioni le motivazioni. Andare avanti per diciotto anni in questo modo è stata dura, abbiamo passato momenti molto difficili, alcuni ogni tanto capitano nuovamente anche perché suoniamo un genere che in Italia non è molto considerato, non va di moda, ed è seguito da un pubblico di nicchia. Però il fatto di aver portato avanti questo discorso senza aver mai delle posizioni ambigue ci ha fatto guadagnare del rispetto e questo aiuta a rimanere coerenti. La nostra musica può piacere o meno ma su una cosa non si può discutere: quello che facciamo è onesto, vero e spontaneo».




Titolo: Beggar town
Gruppo: Cheap Wine
Etichetta: Cheap Wine Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(Testi e musiche di Marco Diamantini, eccetto dove diversamente indicato)

01. Fog on the highway
02. Muddy hopes
03. Beggar town  [musica di Alessio Raffaelli, testo di Marco Diamantini]
04. Lifeboat  [musica di Michele Diamantini, testo di Marco Diamantini]
05. Your time is right now  [musica Michele Diamantini e Alessio Raffaelli, testo Marco Diamantini]
06. Keep on playing  [musica di Michele Diamantini, testo di Marco Diamantini]
07. Claim the sun
08. Utrillo's wine  [musica di Alessio Raffaelli, testo Marco Diamantini]
09. Destination nowhere
10. Black man
11. I am the scar
12. The fairy has your wings (for Valeria)