giovedì 24 aprile 2014

C'è "Qualcuno stanotte" con Massimiliano Larocca







"Qualcuno stanotte" è il frutto dell'incontro tra il cantautore fiorentino Massimiliano Larocca e Antonio Gramentieri, chitarrista romagnolo nonché produttore e leader dei Sacri Cuori. Il disco segna il ritorno sulle scene di Larocca con un album a suo nome dopo molti anni di assenza. Era il 2008 quando fu pubblicato "La breve estate", il secondo disco dopo "Il ritorno delle passioni" del 2005. In questo arco di tempo il musicista fiorentino è stato uno dei protagonisti del progetto Barnetti Bros Band insieme a Massimo Bubola, Andrea Parodi e Jono Manson (il disco "Chupadero!" ha visto la luce nel 2010) e di The Dreamers con Paolo Benvegnù, Riccardo Tesi ed Erriquez (il disco "The Dreamers" è uscito nel 2012). Con questo nuovo lavoro, "Qualcuno stanotte", Larocca si allontana dai suoni roots e dalle suggestioni a tratti folk delle precedenti testimonianze discografiche per abbracciare sonorità rock, a volte più corpose in altre occasioni più scarne. Per compiere questo balzo in avanti Larocca si è avvalso della collaborazione di Antonio Gramentieri e dei componenti dei Sacri Cuori che hanno suonano nelle tracce del disco. La musica "cinematografica" dei Sacri Cuori ha portato nuova linfa e vitalità alla poetica urbana di Larocca che ha firmato dieci delle dodici tracce presenti nel cd.
La voce profonda di Larocca si sposa con testi che descrivono esperienze intime e di vita quotidiana in un susseguirsi di fotografie di "amore e salvezza". E' un disco che cresce alla distanza e che contiene una manciata di canzoni di spessore che sono destinate a rimanere a lungo. Un lavoro che funziona e che evidenzia come il percorso artistico di questo cantautore sia in grado di offrire ancora gradevoli sorprese. 
Con Massimiliano è stato piacevole conversare di musica e suggestioni e quello che segue è un sunto di quella serata.





Sono passati sei anni dal tuo ultimo disco solista e quattro dal progetto della Barnetti Bros Band. Cosa hai fatto in tutto questo tempo?

«In questi anni ho lavorato con la musica in una maniera per me nuova e diversa. Mi sono impegnato a sviluppare progetti, che è poi stato anche il cammino che mi ha portato a lavorare con i Sacri Cuori. A livello discografico non è vero che sono rimasto totalmente fermo. L'anno scorso ho curato personalmente la realizzazione di un progetto, chiamato The Dreamers, che ha visto coinvolto un gruppo di ragazzi diversamente abili di Firenze. Insieme a Paolo Benvegnù, Riccardo Tesi ed Erriquez della Bandabardò abbiamo tenuto un laboratorio di scrittura di canzoni a cui hanno partecipato una trentina di ragazzi cosiddetti diversamente abili, che poi da un punto di vista creativo sono molto più abili rispetto a tanti altri. Abbiamo fatto una serie di concerti tutti insieme, abbiamo registrato questo disco. E' stata una esperienza molto bella. La musica è sempre stata quindi il mio strumento ma l'ho usata in maniera diversa, in diversi progetti ed è quello che in questo momento mi piace fare. Mi sono anche concentrato a fare promozione culturale a Firenze. Quest'anno al teatro Alfieri ho curato una rassegna che si chiama Storytellers a cui hanno partecipato anche Hugo Race, Robyn Hitchcock, Chris Eckman. E' andata molto bene».

Come è nata la collaborazione con Antonio Gramentieri e i Sacri Cuori?

«Ci conosciamo da dieci, quindici anni, non ricordo. Ma quando ci siamo conosciuti i nostri percorsi artistici erano veramente molto lontani. Era impensabile trovare un punto d'incontro. Ci sono voluti più di dieci anni per realizzare che un terreno comune l'avevamo. Siamo partiti da strade molto diverse. Io vengo dai cantautori italiani, dal rock americano degli anni '60-'70, quello che mi piace definire con l'espressione rock romantico, mentre Antonio ha fatto un percorso più da musicista anche se ha sempre lavorato a stretto contatto con la canzone. La mia terra d'elezione si è sempre divisa tra New York e il Texas, Antonio guardava all'Arizona dei Calexico, ai Giant Sand, a Steve Wynn. Questo è stato un po' il suo orizzonte che si è arricchito strada facendo anche di elementi insospettabili come la musica folk della Romagna, quindi il liscio. Io partendo dal rock romantico lungo la strada ho incontrato i cantautori italiani, il folk e certe radici della tradizione italiana».

Chi tra i due si è avvicinato di più all'altro?

«Io sicuramente, o meglio io mi sono avvicinato ad Antonio quando ho avuto veramente qualcosa da proporgli. Per il resto l'ho seguito perché il progetto Sacri Cuori mi è piaciuto fin dall'inizio e poi perché lo vedevo suonare con artisti che amo, Hugo Race ma anche Dan Stuart e molti altri».

Eppure un po' di anni sono passati da "La breve estate"...

«In questo mio percorso sono stato fermo tanti anni perché aspettavo una sorta di illuminazione, non volevo fare un disco come il precedente. L'ho sempre considerata la fase uno della mia carriera e la reputavo finita. Cercavo il punto di partenza per una seconda fase».

Dal punto di vista musicale cosa ti ha regalato l'incontro con i Sacri Cuori?

«Essenzialmente ha cambiato il mio modo di pensare la musica. L'avevo messo in preventivo, anzi sono andato a cercare Antonio essenzialmente perché volevo rovesciare le mie categorie. Fino a questo momento fare musica per me significava scrivere belle canzoni, tirarne fuori la bellezza e il romanticismo. Inoltre lavorando sulla musica elettro-acustica, il lavoro nei miei dischi precedenti era volto a restituire il suono nella maniera più fedele possibile. Invece, per riallacciarmi al discorso di prima, con i Sacri Cuori ho voluto iniziare la fase due in un modo nuovo e cambiare un po' il modo di fare musica».

Cosa hai cercato in questa collaborazione?

«Due cose mi sono sembrate particolarmente stimolanti nei Sacri Cuori e di conseguenza nella poetica sonora di Antonio Gramentieri, che è un po' la punta dei Sacri Cuori. La prima la spiego identificando la band come una sorta di organismo capace, mantenendo la propria essenza e identità, di allungarsi, dilatarsi, cambiare a seconda con quali altri organismi interagisce. Quando i Sacri Cuori suonano con un musicista è come se si scatenasse una reazione chimica dando vita a una nuova entità e questo contrasta con la cultura del musicista italiano che è prevalentemente un turnista impegnato a svolge il lavoro senza influenzarlo. Questa "officina sonora" in Arizona, a partire da Howe Gelb, è sempre esistita. Ero interessato a vedere quale poteva essere la reazione chimica che poteva scaturire dal mio incontro con i Sacri Cuori. La seconda è stata la voglia di cambiare le mie categoria musicali: non solo per quanto riguarda il suono, la canzone e la scrittura ma anche per l'idea di musica come ambiente. Nella musica dei Sacri Cuori è presente, infatti, una visione cinematografica che procede per immagini e suggestioni. Due cose che alla fine ho trovato in questa collaborazione».

Fabbriche, strade, uomini perdenti. Ci sono tutti gli ingredienti di una storia noir dedicata ai "loser" della tradizione cantautorale americana. Sei d'accordo?

«Non solo della tradizione americana, abbiamo ottimi esempi di chi ha cantato gli ultimi anche in casa nostra. Però sì, è vero che in ogni mio disco c'è una letteratura di riferimento in filigrana. La mia ambizione, per quanto possibile, è di essere letterario nella canzone. Rispetto a questo disco c'è anche una iconografia cinematografica, che è quella legata al mondo noir in bianco e nero. Però quando mi è stato chiesto di spiegare questo disco ho preferito definire le canzoni di amore e salvezza. E per me dire canzoni d'amore è una cosa senza precedenti, anche in questo c'è stato un bello scarto rispetto al passato».

In più di un episodio del disco ho ritrovato echi della produzione springsteeniana. A cominciare dal nebraskiano "Scarpe di lavoro" che mi ha ricordato "State trooper". Springsteen è uno dei tuoi punti di riferimento?

«Assolutamente sì. Ci sono canzoni la cui scrittura può tradire delle influenze della produzione di Springsteen come di molti altri, Dylan e Van Morrison in testa. "Scarpe di lavoro" è una sorta di blues un po' alla Los Lobos. Con quel ritmo ossessivo e quel riff dritto, quasi asettico. Il brano è un buon esempio di come una canzone scarna si trasformi passando attraverso vari filtri, ultimo dei quali, il più importante, è quello rappresentato dalla band. E quello che passa dalle mani dei Sacri Cuori ne esce sempre trasformato».

Cosa ti ha spinto a proporre una versione della canzone dei Gaslight Anthem "Blue jeans & white t-shirt"?

«Non ci sono particolari motivi se non che quella canzone mi piaceva veramente tantissimo, tra l'altro l'ho scoperta per caso e devo anche confessare che non sono un fan sfegatato dei Gaslight Anthem. Però quella canzone mi ha colpito subito e mi sono trovato a tradurla quasi per caso. Tratta un tema che nelle canzoni mi ha sempre toccato e commosso, che è quello dell'adolescenza e comunque delle grandi promesse dell'adolescenza. Quando siamo adolescenti ci si sente in grado di fare grandi promesse senza sentirsi bugiardi, poi questa innocenza la perdi e quando da adulto fai grandi promesse sai di essere un po' bugiardo. E forse questo è l'aspetto che mi ha sempre affascinato dell'adolescenza. Per me quella canzone è una fotografia incredibile della grande magia di quel periodo della vita. E' un tema che nel disco c'è e si lega ai miei ricordi da adolescente nel quartiere fiorentino in cui sono cresciuto; ci sono dei riferimenti personali che tra l'altro si amalgamano bene con la letteratura di cui parlavo prima».

Strade perdute" è la tua "Drive all night". Dove ti portano queste strade?

«Strade perdute è anche la mia "Madame George". Ho sempre amato queste lunghe canzoni dove alla fine quello che dava la dinamica alta-bassa, pieno-vuoto, erano sempre la voce e le parole. Volevo fare una canzone di questo tipo, dove la fine non termina mai. "Strade perdute" rientra in una certa tipologia di canzoni d'amore che sono presenti in questo disco, almeno in due episodi. "Strade perdute" sono tutti i grandi amori della vita che non si realizzano».

Nel disco c'è anche la canzone d'amore "Ti porto con me". Qual è il messaggio di questo brano?

«E' dedicata alla mia ragazza, Giulia. La capacità di parlare dei sentimenti o semplicemente della mia vita, direttamente senza filtri, mediazioni, senza utilizzare altri personaggi, è assolutamente una cosa nuova per me, è forse il più bel traguardo che ho raggiunto negli ultimi anni. "Ti porto con me" è una semplicissima canzone d'amore che dice una verità e meritava che non rimanesse nascosta».

Quanto c'è di autobiografico quindi nelle canzoni di questo disco?

«E' un disco veramente personale e non solo e non tanto perché ci sono pezzi di vita qua e là. Ci sono molte canzoni con riferimenti all'adolescenza, al quartiere in cui sono cresciuto. In "Nella città degli angeli" racconto alcune storie e parlo di certi personaggi che vivevano nella Firenze di metà anni '80, primi anni '90. Li vedevo in quel quartiere di periferie, Rifredi, dove c'era la grossa piaga dell'eroina che all'epoca si trovava dappertutto, anche sotto i sassi, e il mio quartiere ne era infestato. Vedevo ragazzi più grandi di me che si bucavano davanti a casa mia. Ho voluto raccontare Firenze, la mia Firenze come fosse una grande metropoli. Le cose personali sono anche molto più sottili della storia d'amore o dei ricordi dell'adolescenza. Sicuramente il rapporto uomo-donna ha un grosso peso. "Invisibili" e "Sottomondo" analizzano la luce e le ombre di un rapporto di coppia, d'amore».

Scommetto che le atmosfere da film western di "Le luci della città" sono di marca Sacri Cuori. E' così?

«Dici bene, è il brano che sembra più Sacri Cuori degli altri anche se era una canzone nata come una sorta di blues notturno metropolitano e loro lo hanno contaminato. E' un altro esempio di come quello che alla fine ha concorso a dare vita a questo disco siano state le tante identità, le tante suggestioni che hanno trovato insospettabilmente un terreno comune nelle canzoni».

Un netto stacco musicale si ha con "Invisibili", canzone scritta a quattro mani con Gramentieri e interpreta con chitarra e due voci. Come è nata e perché hai deciso di inserirla?

«Questa canzone non esisteva, avevo presentato ad Antonio le altre undici che avevo scelto per il disco. Avevamo iniziato il mix, quindi il disco era finito, però un giorno Antonio mi ha detto che nel disco mancava una canzone da un minuto e mezzo. Lì per lì non l'ho preso molto sul serio, non ho capito cosa volesse dire. Abbiamo finito quella giornata di lavoro e ci ho ripensato. Quella notte ho cercato in tutti gli archivi e ho provato a ricordare se avessi qualcosa del genere ma non ce l'avevo. Il giorno dopo ci siamo rivisti e ho detto ad Antonio che non avevo una canzone così. Allora gli ho chiesto se aveva una melodia carina su cui lavorare. E così mi ha mandato sul telefono questa melodia che aveva registrato in casa, suonata con la chitarra percussiva, come si sente poi nella registrazione. Il giorno dopo sono tornato da lui con il testo e l'abbiamo registrata seduti intorno a un microfono aperto con Antonio alla chitarra classica e due voci. L'abbiamo registrata così, infatti si sente che è un po' sporca sembra quasi presa per caso. Quando l'ho sentita finita ho capito e ti assicuro che se non ci fosse stato quel minuto e mezzo sarebbe stato un altro disco. Crea quella discontinuità che in un disco del genere è fondamentale affinché il cerchio si chiuda».

E' stato il colpo da novanta del produttore…

«Gramentieri lo considero un grande produttore, non tanto e non solo per gli arrangiamenti e le idee ma perché solo un grande produttore ti vien fuori con queste idee. E ripensando mi viene in mente l'episodio che mi ha citato Antonio e che credo sia descritto da Dylan in "Chronicles" e cioè che nel corso della registrazione dell'album "Time out of mind" Daniel Lanois abbia detto a Dylan che mancava una canzone d'amore. Quasi litigarono ma alla fine Dylan pare abbia scritto in cinque minuti "Make you feel my love". Sono cose belle che succedono quando lavori con i grandi produttori che sanno come tirare fuori il meglio dagli artisti».

Hai scelto una copertina old style, ricorda quelle della mitica Blue Note, e trasmette il senso del viaggio. Un piccolo film, di provincia...

«Volevo che quel mondo, quell'iconografia, quella letteratura di riferimento fosse ben chiara. Volevo che vendendo la copertina le persone sapessero il film che andavano a vedere. Il riferimento al noir o alla Blue Note con il caratteristico blu elettrico aumentano l'aspetto cinematografico. La foto e tutta la storia che si racconta graficamente possono riferirsi a tutte le canzoni del disco ma in particolare a "Strade perdute", che termina con questa donna che prende un treno senza destinazione».

Il disco lascia aperta la porta alla salvezza con "Dopo il diluvio". Qual è la formula per uscire dalla tua "City of ruins"?

«L'idea è proprio di chiudere il disco con una canzone che trasmetta il messaggio di salvezza e quindi quale migliore musica del gospel, seppur molto edulcorato, per restituire questa idea? In questo disco la salvezza può essere rappresentata dalle storie che si raccontano, dal fatto che ogni vita è unica senza precedenti. Credo che alla fine chi ascolta il disco possa scegliere di portarsi con sé una o più storie fra le tante, personali o impersonali non fa differenza, che sono raccontate. Una bella storia se te la porti dietro tutta la vita penso che sia sempre fonte di conforto e consolazione e quindi anche di salvezza».

Il sound dei Sacri Cuori è inconfondibile, lo porterai anche in tour?

«Insieme abbiamo tre date tra aprile e maggio, poi vediamo per l'estate. Quando ci sarà modo e occasione le si faranno. Quando invece non sarò con loro farò in modo che quello che è nato sul disco non sia un limite. Gli arrangiamenti di queste canzoni penso che siano molto aperti, che dicano tanto ma che non dicano tutto. Ognuna di queste canzoni poteva essere sviluppata ancora di più. Proverò a catturare dal vivo, in una formula diversa da quella presentata con i Sacri Cuori, quel margine di ancora non detto che si cela in ogni canzone. Portando però con me quella che è stata la cosa più importante di questa esperienza con loro, cioè il modo diverso di pensare la musica. Credo alla fine di questo disco di aver fatto un salto in avanti come musicista e cantante ed era quello che andavo cercando».




Titolo: Qualcuno stanotte
Artista: Massimiliano Larocca
Etichetta: Brutture Moderne/Audioglobe
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(testi e musiche Massimiliano Larocca, eccetto dove indicato)

01. Angelina
02. Scarpe di lavoro
03. Le luci della città
04. Magnifici perdenti
05. Strade perdute
06. Sottomondo
07. Invisibili [Massimiliano Larocca e Antonio Gramentieri]
08. Piccolo eden [Gaslight Anthem, adattamento in italiano Massimiliano Larocca]
09. Interludio: Il Grande Caldo
10. Nella città degli angeli
11. Ti porto con me
12. Niente amore (in questa città)
13. Dopo il diluvio





sabato 12 aprile 2014

La vita in "Vicolo Riccardi n°1" di Ugo Cattabiani







Una storia di provincia cantata da chi la provincia l'ha vissuta al numero uno di Vicolo Riccardi. Si intitola proprio "Vicolo Riccardi n°1" il nuovo disco di Ugo Cattabiani pubblicato in questi giorni per Rigoletto Records. Il cantautore originario di Parma, al secondo album solista dopo "Il cortigiano" del 2011, ha voluto raccontare le emozioni, le storie e i ricordi degli anni vissuti in quella piccola abitazione, stretta in un vicolo dove poco accadeva ma che tanto ha trasmesso dal punto di vista emotivo. Canzoni che descrivono la dicotomia tra la voglia di andare, di lasciare il vicolo che per sua natura non si apre al mondo, e l'impulso a rimanere in un luogo sicuro e conosciuto ma intriso di rimpianti per le occasioni mancate.
Un album eterogeneo che vede alternarsi ritmi rock a ballate dal piglio blues, fino a una sorprendente incursione nella bossa nova. Il tutto legato a testi ricercati, nella migliore tradizione della canzone d'autore a cui Cattabiani non si sottrae. Al disco, registrato allo studio Macchina Magnetica di Romeo Chierici con la produzione artistica di Max Scaccaglia (anche al basso), hanno contribuito Alessandro Aldrovandi e Gigi Cavalli Cocchi alla batteria, Daniele Morelli alla chitarra, Federico Del Santo, Gabriele Fava al sax, l'Oscar Abelli Quartet, Beppe Di Benedetto al trombone e Alessia Galeotti, voce in "Vicolo Riccardi".
Con Ugo Cattabiani abbiamo parlato del vicolo e delle sue storie.



Abitare in Vicolo Riccardi è stata una esperienza che ha lasciato il segno?

«Il segno è rimasto come possibilità di utilizzare e stravolgere il dato biografico. Certo, abitare nel Vicolo è stata un’esperienza importante, ma di cose – laggiù – ne sono accadute ben poche. L’evento decisivo è stato l’abbandono del Vicolo per trasferirmi altrove: essermene andato mi ha consentito di guardare a una porzione di vita con la giusta dose di rimpianto».

In quale periodo della tua vita è capitato?

«Avevo da poco compiuto trent’anni. Mi guardavo attorno per capire se sarei riuscito a conciliare uno stile di vita da artista con la normale routine lavorativa. In quel periodo ero convinto di farcela, e in un certo senso ce l’ho fatta: avevo un impiego quasi regolare che non mi faceva troppo pesare l’assenza di introiti come musicista. Nello stesso periodo ho scritto le canzoni che poi ho pubblicato nel mio primo album "Il cortigiano". In realtà stavo covando una forte insofferenza verso un compromesso che mi andava sempre più stretto».

Nella prefazione al disco esprimi tutta la tua nostalgia per uno stile di vita umile e dimesso. Come te la immagini la vita?

«La vita non me la immagino affatto. Col passare del tempo ho imparato a prendere quello che viene e a non desiderare il successo altrui. Posso azzardare questa affermazione: rinunciando al compromesso di un’esistenza sdoppiata tra musica e lavoro fisso, mi sono impossessato completamente della mia vita. Non ho paura di fallire: anche il fallimento, come il successo, non significa nulla. Però non posso impedirmi di rimpiangere un certo tipo di equilibrio che avevo raggiunto allora. Anche i soldi, ogni tanto, fanno comodo».

Dici anche di aver mancato ‹l'agognato approdo›. Qual è ora la tua rotta e quale il porto più vicino?

«Lo dico nella prefazione al disco, in riferimento a quest’immagine di Ulisse vagante per le notti di periferia. Ulisse, forse, avrebbe preferito approdare in una terra di successo, mandando in patria messaggeri che annunciassero la sua felicità, vera o presunta. C’è senz’altro il rammarico di aver sprecato tanto tempo nelle direzioni sbagliate; d’altro canto, senza l’esperienza accumulata nel viaggio, non si potrebbe apprezzare il conseguimento di un qualsivoglia obiettivo. Ecco, sento che la rotta non poteva che riportarmi qui, nella mia terra, dove riesco a usufruire di quel poco che ho costruito nonostante lo sbandamento».

La provincia è ancora un posto dove vivere e far musica?
 

«Ci sono musicisti che hanno spalancato le porte della bellezza possibile anche in provincia. Penso a un Guccini, a un Capossela, ma anche a un Paolo Conte. Si scrivono grandi canzoni su piccole cose che succedono ovunque. Tutto sta nell’offrire una chiave di lettura non convenzionale, ovvero nello spostare il punto di vista. Non bisogna fraintendere: la vita ha dignità ovunque, così come l’esercitare un mestiere non può assumere un peso specifico maggiore in base alla residenza. La difficoltà oggettiva sta nella maglia del cosiddetto “giro” o circuito di contatti-conoscenze-opportunità che in provincia ha una trama più allargata rispetto a una grande città. In termini lavorativi, la provincia probabilmente penalizza l’artista; da un punto di vista artistico, è un posto bellissimo dove vivere».

Mi pare di capire che ti consideri ‹fuori tempo massimo›. Per cosa?
 

«Per fare quello che adesso so come potrei fare, mentre prima non lo sapevo affatto. Da ragazzi si vive di intuizioni, oltre ad affidarsi alla magia delle suggestioni. Si possiede l’energia, l’incoscienza molto utile a infrangere certi tabù, tra cui quello del dover vivere – coccolati e al sicuro – sullo stesso lembo di terra in cui si è nati. Oggi ho capito che nessuno è mai al sicuro, soprattutto se giovane, perché l’età esige l’esperimento, lo smarrimento e il ritrovarsi a un livello superiore di coscienza. Artisticamente parlando, mi sarebbe piaciuto ritrovarmi tanti anni fa da un’altra parte, in un altro luogo, più forte e indipendente. Tutto questo non conta più, oggi, per me. Ma continuo ad avvertire la fatica di un percorso che avrei potuto alleggerire già tempo fa».

Un disco, un racconto di provincia intriso di rimpianti ma molto ricco dal punto di vista musicale. Spazi dal rock con richiami ai Litfiba (il cantato di "L'interno") a Bob Dylan (l'incipit di "Blues dell'addio"), al blues fino alla bossa nova ("Vicolo Riccardi"). Perché tutta questa eterogeneità di generi?

«Posso supporre che la cosa derivi dalla totale libertà che concedo all’ispirazione. Non ho mai deciso a tavolino che tipo di musica comporre; o meglio, continuo a sognare di scrivere un’opera lirica o una sinfonia o un concerto jazz per big band (se ne avessi le competenze, ci proverei pure). Confesso l’eterogeneità dei miei ascolti, anche se non mi considero onnivoro. Quando un disco non mi piace, lo tolgo dopo 30 secondi: cosa che succede più facilmente con il pop italiano, con il folk dialettale, con il metal e con il rap (ma anche qui ci sarebbe da stendere una lunga lista di eccezioni). Non sono un integralista né della separazione né della commistione a tutti i costi dei generi. Mi piace la ricchezza del linguaggio, la varietà di situazioni, lo scarto tra atmosfere limitrofe: un antidoto contro la noia».

Ci sono stati ascolti particolari che hanno influenzato le sonorità di "Vicolo Riccardi n°1"?

«Se facessi un elenco dei miei ascolti più recenti, anche in virtù di quanto appena detto, non risulterebbero nessi logici con le sonorità del disco. Alcune reminiscenze vengono da molto lontano, altre si collegano a studi musicali (il Real Book, bibbia degli standard jazz) poi abbandonati. Senz’altro ho un debito di ispirazione con il grande rock e con il grande cantautorato, quello che abbiamo ascoltato tutti; sono un patito di Jimi Hendrix e dei Led Zeppelin (prima di venderle, avevo una Fender Stratocaster e una Gibson Les Paul); ho amato i Doors, Vinicio Capossela e Fabrizio De André; sono tuttora innamorato di Francesco Guccini e alla follia di Piero Ciampi. Dylan è ancora capace di incantarmi, anche senza andarmi a leggere i testi (che poi, oggettivamente, sconvolgono, ma se non fossero cantati così…). Ci sono poi tantissimi nomi che hanno offerto qua e là il loro sapiente insegnamento (Tom Waits e Robert Johnson fra tutti). Cosa c’entra tutto questo con le sonorità del disco? Ahimè, non lo so. Il passato e il presente, la musica leggera e quella classica, il blues e il country, l’italiano, l’inglese e l’americano sono una matassa difficilmente districabile».

Nel disco è ospite Gigi Cavalli Cocchi, musicista che non ha bisogno di presentazione avendo suonato con molti dei più grandi della scena prog italiana e internazionale. Come è avvenuto questo incontro?

«Gigi l’ho conosciuto tramite Romeo Chierici, titolare dello studio "La macchina magnetica" in provincia di Reggio Emilia presso cui ho registrato il disco. Le cose sono andate come vanno in questi casi: si parla del più e del meno, il discorso cade inevitabilmente sulla musica, si finisce per collaborare. È stato un grande onore che Gigi abbia accettato di suonare la batteria su uno dei pezzi più rock del disco, "Fitzgerald". Non riuscivo a smettere di pensare, mentre lo guardavo dietro il vetro della sala riprese, che era lo stesso batterista che avevo ammirato da ragazzino quando accompagnava il Liga nel tour di "Sopravvissuti e sopravviventi", un album che ho consumato a forza di ascolti. Gigi è un artista a 360°, anche grafico e produttore, aperto a ogni genere musicale. Siamo diventati amici perché - da persona squisita qual è - ha azzerato immediatamente il divario tra un "grande" come lui e un "piccolo" come me. Ha anche supervisionato la compilation "Volume 2" firmata Rigoletto Records, il collettivo di cantautori parmigiani di cui faccio parte. Continuiamo a sentirci, senza smettere di progettare per il futuro».

Che cosa rappresenta "Vicolo Riccardi n°1" nel tuo percorso artistico?

«È un disco che mi ha dato del filo da torcere. Non per la realizzazione, ma per il senso di responsabilità che ho provato nel licenziarlo. Venivo da riscontri più che positivi nei confronti del mio precedente lavoro, "Il cortigiano", nato senza troppe pretese e segnalato nel 2012 dal Club Tenco come "proposta interessante". Mi ero messo in testa che non potevo deludere le aspettative. Con questo pensiero, dopo sei mesi dalla fine delle registrazioni, non osavo pubblicare il nuovo disco. Sembrerà assurdo, ma fino a quel giorno la musica era stata per me la cosa più naturale del mondo: suonavo, scrivevo canzoni e non mi aspettavo niente da quello che facevo. Coltivavo l’ambizione con un pudore molto simile al disincanto. Al primo riscontro come cantautore, sono andato in cortocircuito. Mi ci è voluto un po’ di tempo per tornare a inquadrare serenamente il mio mestiere: ora so che devo continuare a farlo per me stesso, come l’ho sempre fatto, cercando di comunicare con il mio pubblico, vasto o esiguo che sia».

Riascoltandolo pensi che avresti potuto cambiare qualcosa?

«Cambierei tutto! Che è come dire: è perfetto così. L’ho riascoltato talmente tante volte per capirne i difetti, che mi sono affezionato a quei difetti. Arriva il momento in cui la creatura deve staccarsi dal creatore e affrontare il mondo con le proprie gambe. Tanto dal vivo lo stravolgo a piacimento! Una cosa che non cambierei mai e poi mai è proprio questa idea di libertà creativa che mi sono sforzato di comunicare ai musicisti che hanno registrato in studio: io vi do la traccia, voi la interpretate a piacimento. Le canzoni hanno subìto un trattamento in fase di pre-produzione sotto la guida di Max Scaccaglia, che ha curato anche le linee di basso; poi si è aggiunta la batteria di Alessandro Aldrovandi, il sax di Gabriele Fava, le chitarre di Federico Del Santo e di Daniele Morelli. Grazie al loro contributo, la musica è cresciuta in maniera esponenziale, molto al di là delle mie aspettative. Infine, sono arrivate le collaborazioni a impreziosire il risultato finale: Alessia Galeotti alla voce in "Vicolo Riccardi", Beppe Di Benedetto al trombone ne "Lo scioperato", l’Oscar Abelli Quartet nel "Blues dell’addio"».

Qual è la tua dimensione live preferita: da solo o con la band?

«Faccio di necessità virtù. Fosse per me, suonerei ogni volta con la band al gran completo: la musica ne trae beneficio e io mi diverto come un matto. Li ho citati poc’anzi, gli straordinari musicisti con cui ho collaborato. Tutti professionisti che sanno il fatto loro. Purtroppo - vuoi per gli ingaggi al lumicino, vuoi per le location - non sempre posso permettermi un così sontuoso accompagnamento. Perciò mi muovo spesso in formazioni ridotte (duo o trio acustico) o anche da solo. Ad essere sincero, non mi dispiace affatto interpretare le mie canzoni in maniera minimale chitarra e voce: c’è più spazio per raccontare le storie da cui sono nate, ricreando un’atmosfera di complicità tra artista e pubblico. Non è facile intrattenere con così pochi mezzi, ma è una sfida a cui un cantautore non può sottrarsi».

Quali sono i tuoi prossimi progetti oltre alla promozione del disco?
 

«Eh, i progetti sono davvero tanti, sia come Ugo Cattabiani che come membro della Rigoletto Records (guardate un po’ il sito www.rigolettorecords.com e capirete che si tratta di un continuo work in progress) per cui l’unica certezza del presente è che c’è tanto da lavorare. Amo ciò che faccio e sono felice di poterlo fare, nonostante le oggettive difficoltà che incontra chiunque s’impunti a trasformare in realtà dei progetti artistici. Per ora mi sto dedicando a quello che ho chiamato Vicolo Cieco Tour ovvero una serie di concerti e showcase promozionali del nuovo disco: l’idea è quella di un tour piccolo piccolo, nelle province limitrofe di Parma, Reggio Emilia e Modena, con qualche scorribanda estemporanea in città più lontane (a maggio sarò a Genova). Inoltre, con il collega cantautore Rocco Rosignoli e il regista Luca Vitali, stiamo realizzando un docufilm, dal titolo "Trobàr - Viaggio alla ricerca della canzone", attraverso il sistema di finanziamento denominato crowdfunding: con il contributo dei nostri futuri spettatori, cui verrà corrisposta una ricompensa, contiamo di macinare più chilometri possibili su e giù per l’Italia raccogliendo testimonianze di artisti affermati, giornalisti di settore e critici musicali (http://trobar-doc.blogspot.it/?m=0)».

Come dicevamo il tuo disco è stato pubblicato da Rigoletto Records, di cui tra l'altro sei il presidente. Qual è il vostro progetto come casa discografica e quali artisti producete?

«La Rigoletto Records non è una casa discografica (perlomeno non la è ancora) bensì un’associazione culturale composta da musicisti e cantautori operanti tra le province di Parma e Reggio Emilia. Il nostro intento è quello di valorizzare e promuovere il patrimonio della canzone d’autore, declinata nelle sue infinite forme, attraverso iniziative culturali, concerti, rassegne e la pubblicazione discografica. Siamo nati ufficialmente nel 2012 e da allora siamo cresciuti come presenza sul territorio. Non possiamo ancora permetterci di produrre artisti esterni all’associazione; la Rigoletto Records si limita a sostenere i progetti discografici dei soci, fornendo servizi quali ufficio stampa e promozione sul web».

Altri dischi quindi in un mercato sempre più saturo. Non pensi che la situazione sia troppo intricata?

«La situazione per certi versi è grottesca: ci si ostina a stampare dischi che rimarranno, nella migliore
delle ipotesi, invenduti; nella peggiore, inascoltati. Tuttavia non si può continuare a ragionare in termini di mercato. Il mercato è solo una parte di questa intricata faccenda. Penso che la canzone cosiddetta d’autore debba ritrovare la sua identità, tornando a farsi interprete delle istanze di un pubblico comunque vivo, presente, disposto a seguire i concerti o addirittura a comprare i dischi dei suoi artisti preferiti. Parlo naturalmente di una nicchia (di pubblico e di artisti) che nulla ha da spartire con il target generalista delle grandi produzioni nazionalpopolari. Stampare un disco, nel 2014, è comunque indispensabile per veicolare l’attività live, che in definitiva è l’unico jolly che ancora rimane a noi cantautori per comunicare attraverso la musica».  


Titolo: Vicolo Riccardi n°1
Artista: Ugo Cattabiani
Etichetta: Rigoletto Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(testi e musiche di Ugo Cattabiani)

01. La scatola
02. L'interno
03. Vicolo Riccardi
04. Perderò
05. Intermezzo
06. Fitzgerald
07. Ballata dell'uomo che fu
08. Blues dell'addio
09. Lo scioperato
10. Il dilettante