lunedì 30 giugno 2014

Pulin and the little mice all'esordio discografico






Si intitola "Hard times come again no more" ed è il primo disco dei Pulin and the little mice, gruppo savonese di musica folk sulle scene ormai da diversi anni. In questo album Marco Crea, Marco Poggio, Giorgio Profetto e Matteo Profetto hanno dato una loro personale lettura a brani della tradizione americana e irlandese. Canzoni note a chi ha avuto il piacere di assistere ad un loro concerto, sicuramente tutte da scoprire per chi non è un esperto del genere. Undici episodi rivisitati con l'ausilio di una strumentazione rigorosamente acustica che fanno da filo conduttore a un viaggio che parte dalla Liguria e che fa tappa nella verde Irlanda, per ripartire alla volta della Guascogna e poi dell'America del 1800 con le sue vaste praterie e la Grande Depressione, e nel secolo successivo con Leadbelly e i padri della musica folk e con Woody Guthrie che suona la sua "this machine kills the fascists". È un viaggio piacevole, vissuto in prima classe e organizzato con cura minuziosa dai Pulin and the little mice ma anche un invito alla ricerca di tanta musica che merita solo di essere riscoperta e valorizzata.
Il disco prende il titolo dalla famosa canzone di Stephen Collins Foster del 1854 che in questi ultimi anni ha trovato una nuova giovinezza grazie alle interpretazioni di Bruce Springsteen in occasione del Wrecking Ball Tour, di Mavis Staples, di Iron & Wine, di Paolo Nutini insieme ai Chieftains e di tanti altri. La canzone di Foster chiude il disco e il testo tradotto in italiano trova spazio sul retro copertina.
"Hard times come again no more" è un prodotto che ha visto coinvolte alcune delle migliori realtà del savonese: la registrazione è stata curata a Loano da Alessandro Mazzitelli, vero punto di riferimento per i musicisti della provincia e non solo, mentre la grafica è di Alex Raso che ha lavorato con gusto a tutto il packaging.
Ecco di seguito l'intervista "collettiva" ai Pulin and the little mice.



Come è avvenuta la scelta delle canzoni che presentate nel disco?

«Abbiamo selezionato, fra i pezzi che proponiamo dal vivo, quelli che ci sembrava potessero "dire qualcosa", in cui magari gli arrangiamenti fossero diversi dalle versioni originali. Per tutti i brani è stato così, tranne per "Hard times come again no more", brano che chiude e che dà il titolo al disco, il cui arrangiamento, non a caso, è completamente diverso da tutti gli altri».

Curiosa ma azzeccata l'idea di legare brani diversi per creare piccoli medley a tema. Come vi è venuta questa idea?

«Credo che, insieme all'uso di più voci, sia la caratteristica più importante della band. Il tutto è dettato dal nostro cercare di "vedere" la musica (almeno quella di origine popolare) senza vincoli geografici né storici. D'altronde l'incontro musicale tra differenti culture ha prodotto, in passato come in tempi recenti, risultati a dir poco straordinari. Ed è questo il messaggio che, nel nostro piccolo, cerchiamo di trasmettere a chi ci ascolta».

C'è molta Irlanda in questo disco, forse più di quella che normalmente presentate dal vivo. Mi sbaglio?

«In realtà, per puro caso, i brani irlandesi sono a pari merito con quelli di origine americana, anche se c’è spazio per un rondò della Guascogna così come per un brano tradizionale ligure. Per quanto riguarda i concerti, dipende un po’ dalle situazioni, non teniamo mai una scaletta fissa, quindi a volte può capitare di dare più spazio a un certo tipo di sonorità piuttosto che ad un'altra. Comunque siamo indubbiamente debitori, nonché grandi ammiratori, della cultura musicale irlandese».

Tra tutte queste canzoni della cultura anglosassone c'è un accenno strumentale a un motivo tradizionale ligure: "Baccicin vattene a ca". Perché questa scelta?

«Il set che abbiamo chiamato "Sweet Durin" in cui è inserita "Baccicin vattene a ca" in realtà dal vivo è inserita all’interno di un set di canzoni francofone. Ci sembrava che questa melodia potesse sposarsi bene con "Sweet Marie" e che l’armonica sola potesse rendere efficacemente il brano. Ci piaceva l'idea di usarlo come ponte tra la prima e la seconda metà del disco, attraversando, inoltre, nel nostro viaggio musicale, anche la Liguria».

Ascoltando il disco mi pare di capire che avete lavorato molto sulle voci. E' così?

«Dal vivo cerchiamo di usare con più impegno possibile le armonie vocali (senza esagerare che non siamo CSN&Y) e dal momento che il disco è composto da brani che proponiamo anche nei concerti, la scelta è stata per così dire obbligata».

"Hard times come again no more" è l'ultima canzone ed è anche il titolo dell'album. Un riferimento anche ai tempi amari che devono vivere i musicisti emergenti?

«Il titolo del disco può essere visto da ognuno secondo le proprie sensazioni; per questo motivo il testo del brano omonimo è l’unico di cui si può trovare la traduzione in italiano, nel retro copertina. Certo non è un momento facile per l’Italia e per le persone, ma di sicuro, in scala più piccola, ognuno di noi ha vissuto e vive dei momenti difficili, in cui l’unica motivazione che ti spinge a superarli è il pensiero e l’impegno nel non volerli rivivere mai più».

Quanto sono durate le sessions di registrazione?

«Ecco, questa è forse l’unica vera pecca della registrazione del disco. Ci abbiamo messo più di due anni, un’infinità. Probabilmente abbiamo un po’ pagato la nostra assoluta inesperienza in studio di registrazione, che malgrado possa sembrare un ambiente "più protetto" rispetto a un palco, è al contempo disorientante se non lo conosci. Inoltre abbiamo registrato il disco nel tempo libero, cercando di essere sempre tutti presenti. A tutto questo bisogna aggiungere il fatto che siamo quattro ragazzi a cui piace vivere le cose senza fretta, non è nella nostra indole forzare i tempi».

Quando avete capito che eravate sulla strada giusta?

«E chi lo sa se sia stata la strada giusta? A parte gli scherzi, per tre di noi è stata la prima esperienza in studio, non siamo partiti con un'idea precisa del risultato finale».

E' il vostro primo disco, quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato?

«Mah, come dicevamo prima, è stato tutto molto bello, a posteriori, ma essendo stata un'esperienza inedita per noi, ci siamo scontrati con un mondo completamente sconosciuto, dalla registrazione (a volte non in diretta), al mixaggio, ai tempi lunghissimi, alla burocrazia, alla scelta della copertina».

Molto simpatica e riuscita la copertina…

«Grazie! Abbiamo valutato diverse ipotesi e alla fine abbiamo scelto quella. Ci siamo anche dati un'interpretazione che lega il titolo alla copertina, ma entriamo in discorsi difficili…».

A chi consigliate questo disco?

«Ovviamente a tutti! Uomini, donne, bambini, nonni, coppie, cani e animali di ogni genere. A parte gli scherzi, abbiamo cercato con questo disco, e ancor di più durante i concerti, di mettere del nostro nella musica che suoniamo, evitando di essere solo degli esecutori, infondendo nei brani un briciolo della personalità d'ognuno di noi, nell'umile tentativo di incuriosire chi ci ascolta e avvicinarlo alla musica che amiamo così tanto».

Cosa cambia per i Pulin and the little mice adesso che avete un disco pubblicato?

«Sicuramente la consapevolezza di poter condividere la nostra passione con il pubblico non solo attraverso i concerti».

Dopo un album di cover quale sarà il vostro prossimo passo?

«Come forse si è capito da quanto detto in precedenza, il discorso cover per noi non ha una grossa importanza, visto anche che quasi tutti i brani che suoniamo in concerto sono, ai più, praticamente sconosciuti. Tutto sommato il nostro obiettivo in questo senso è sempre stato quello, come accennavamo prima, di metterci del nostro dal punto di vista dell’arrangiamento, degli accostamenti, delle esecuzioni, poi che il brano sia d’autore, tradizionale o composto da noi importa abbastanza poco. Il prossimo passo? E chi lo sa!»

Qual è il vostro disco preferito di sempre?

«Questa è una bella domanda, a cui è veramente complicato rispondere, essendo quattro teste diverse, ma d’altronde, per contratto, siamo costretti a rispondere "Hard times come again no more" dei Pulin and the little mice».



Titolo: Hard times come again no more
Gruppo: Pulin and the little mice
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce

01. Ain't no grave gonna hold my body down / The old maid of Galway
02. Patrick was a gentleman / Dennis Murphy's polka / The wistful lover
03. The auld triangle
04. Hard travelin' / Seneca square dance
05. St. James infirmary blues
06. Sweet Durin (Sweet Marie + Baccicin vàttene a cà)
07. Goodnight Irene / I always knew you were the one
08. Deep Ellum blues
09. You don't knock
10. Star of the County Down / La passade
11. Hard times come again no more





martedì 17 giugno 2014

Federico Bagnasco e "Le trame del legno"





"Una coraggiosa e intima esplorazione sonora nel mondo del contrabbasso". Ha usato queste parole Paolo Fresu per descrivere il disco d'esordio, in veste di compositore e solista, del musicista genovese Federico Bagnasco. Ne "Le trame del legno", questo il titolo dell'album, il suono del contrabbasso e la sperimentazione elettronica curata da Alessandro Paolini si fondono in un abbraccio sonoro non convenzionale. Elettronica, mai invadente, che sviluppa ed enfatizza i suoni del contrabbasso e le capacità e la fantasia dello strumentista rendendo possibili soluzioni inaspettate e creando un universo sfaccettato sempre godibile. Le canzoni, tutte inedite, si susseguono con estrema naturalezza dando vita ad un incessante fluire, ricco di colori e suggestioni. Un suono puro e cristallino che rapisce l'ascoltatore mantenendo una costante tensione sia in occasione di brani più ritmici che in divagazioni oniriche.
Federico Bagnasco è artista poliedrico che ha lavorato in diversi ambiti: dall'orchestra a formazioni cameristiche, dall'accompagnamento di cantautori allo studio della musica antica e contemporanea, da occasionali incontri in ambito jazz e folk all'impegno in spettacoli teatrali. Tutta questa varietà di esperienze e studi ha permesso al musicista genovese di sviluppare un linguaggio personale e un approccio alle diverse tecniche del contrabbasso che trovano la giusta esaltazione in questo album.
Ce ne parla lo stesso Federico Bagnasco in questa intervista.




Federico, complimenti per il disco. Devo riconoscere che al giorno d'oggi, in cui alla musica si dà un veloce ascolto, ci vuole coraggio a produrre un album come il tuo...

«Credo che in questo momento in Italia ci voglia coraggio a scegliere di fare il musicista e a perseverare nella scelta, ciò a prescindere dal mio album. Se uno è forte (o debole) di questa scelta e dei sacrifici che ne conseguono, il resto è un coraggio leggero, lieve, uno dei tanti che si compiono
inevitabilmente quando si agisce. Il mio è un progetto un poco anomalo, me ne rendo conto, ma per altri versi potrebbe essere più coraggioso, o altrettanto coraggioso, esporsi con qualcosa di più conforme allo standard, più paragonabile al conosciuto, più facilmente sottoponibile al giudizio altrui. Se d'altra parte il coraggio è corrispondente all'azione dell'osare, del mettersi in discussione ed esporsi con qualcosa di differente, fuori standard, allora potete anche darmi del leone, o per non esagerare, quantomeno del gatto selvatico».

Dicono che i musicisti debbano avere una buona dose di pazzia nel loro dna. Pensi anche tu di far parte di questa categoria?

«Francamente sì, seppur moderatamente e in maniera adeguatamente controllata. La pazzia è l'altra faccia del coraggio e, come sopra accennavo, in questo paese e in questo momento storico, diventano entrambe caratteristiche imprescindibili di questa professione, o forse più in generale di chiunque voglia fare un qualsiasi lavoro seriamente e con passione. E la pazzia, è risaputo, spesso è anche l'altra faccia della passione».

Come ti è venuta l'idea di registrare un disco puntando solamente sui suoni del contrabbasso e un po' di elaborazioni elettroniche?
 

«L'idea è nata lentamente un bel po' di anni fa: ho aspettato le circostanze favorevoli per metterla in pratica, cioè un po' di soldi da parte e un po' di tempo da investire. Credo che alla base ci sia stato un bisogno di fare tutto un lavoro in solitario e senza dover rendere conto a nessuno, una sfida, quasi, con i miei mezzi e i miei limiti. Il mio lavoro di musicista mi porta ovviamente a mettermi innanzitutto al servizio dell'arte altrui, di una musica scritta, di un artista da accompagnare, di un gruppo di cui esser parte, di un contesto, di un datore di lavoro. A un certo punto ho voluto provare a mettermi in gioco e vedere cosa ne usciva; ho aspettato finché il desiderio non ha assunto un carattere di urgenza e dunque ho agito. Ho inoltre sempre avuto una forte attrazione per il lavoro in studio di registrazione: la possibilità di fermare la musica, di fissarla, di rubarne l'ineffabilità che le è propria, e creare qualcosa che rimane, costruire l'opera così come il pittore fa il quadro o lo scrittore il libro, senza intermediari (o meglio concedendo questo ruolo soltanto all'apparecchio riproduttore, allo stereo di chi ascolta). Una volta accettato che un disco è un'operazione artificiale, che poco ha a che fare con la musica suonata dal vivo, il passo per manipolare a posteriori del materiale suonato è breve, e si enfatizza così l'aspetto da artista-demiurgo che plasma e manipola se stesso, correggendosi, cambiandosi, comandando e "gestendo il tempo". Il contrabbasso è il mio strumento, che studio da anni e con il quale lavoro e mi esprimo, dunque, in coerenza con quanto detto sopra e in un'ottica ovviamente anche di risparmio, evitando di coinvolgere altri strumentisti, l'idea si è palesata da sé. Imponendomi una coerenza dal non usare materiale sonoro che non derivasse dal contrabbasso, mi sono lasciato libero di poter avere diversi approcci dal punto di vista compositivo ed esecutivo; questo è stato un altro importante stimolo».

Devo ammettere che quando mi hai parlato del disco ero un po' scettico e invece mi sono dovuto ricredere: è un album stimolante, per niente noioso, e cresce con l'ascolto senza essere ripetitivo. Qual è il segreto?

«Spero che questa tua sensazione possa essere condivisa anche da altri ascoltatori, io ho fatto il possibile perché sia così! Credo che il segreto, per così dire, sia legato a una certa facilità che io personalmente ho ad annoiarmi: qui ho cercato di fare qualcosa che innanzitutto non annoiasse me. Ogni brano ha una storia e un percorso diverso, un differente approccio con lo strumento o con l'elettronica, e ciò dà molta varietà al lavoro nel suo complesso, pur mantenendo una coerenza sotto il profilo timbrico, poiché ogni suono è generato dal contrabbasso. Inoltre i brani sono mediamente brevi, una media di circa tre o quattro minuti, con la sola eccezione di "Residui" di sette minuti, e anche questo credo contribuisca a evitar la noia».

Quanto c'è di improvvisato in questo disco e quanto di studiato a tavolino?

«Difficile dirlo. Anche perché c'è molta improvvisazione studiata a tavolino. Ci sono almeno tre brani scritti e definiti già prima di entrare in studio, e altri cinque solo parzialmente scritti o adeguatamente già strutturati; anche in questi casi il lavoro in studio giocando con l'elettronica ha contribuito molto alla ri-creazione dei brani. Il resto è completamente nato in studio: improvvisando e manipolando poi le improvvisazioni, improvvisando con l'elettronica in tempo reale - in live electronic- modellando a tavolino il materiale registrato. Un work in progress».

Quando sei entrato in sala di registrazioni avevi ben presente il risultato che volevi raggiungere?

«No, lo avevo presente all'incirca. Mi era chiara la modalità di lavoro, i limiti del lavoro, gli obiettivi che volevo raggiungere e il tipo di suono e di ricerca sul suono che volevo "rappresentare". Il risultato finale mi si delineava man mano che il lavoro procedeva, mi sono preso tutto il tempo di cui sentivo il bisogno, per capire innanzitutto cosa stavo cercando, e poi per trovarlo».

Come si sono svolte le sessioni di registrazione e quanto sono durate?

«Sono durate moltissimo, un modo di lavorare molto poco consueto oggigiorno. Abbiamo lavorato fondamentalmente in tre sessioni di circa un mese ciascuna, quando impegni personali o professionali, miei o di Alessandro o dello studio, non imponevano altrimenti, comunque per un totale che supera le cento ore di studio; più un breve periodo a mesi di distanza per il suono e il mixaggio complessivo. Ciò che ha reso possibile tutto è stata la collaborazione con Alessandro Paolini, e in particolare la sua disponibilità - seconda solo alla sua competenza - nel venirmi incontro per la realizzazione del tutto. La modalità di ogni sessione di lavoro la decidevo man mano, ma il grosso è stato fatto davanti al computer, valutando assieme e sperimentando diverse soluzioni. Il risultato finale è frutto di diverse scelte: un bel po' di materiale registrato non è stato poi utilizzato, così come qualche tentativo di manipolazione non ci ha convinto e non lo abbiamo portato a termine».

Ottimo disco, dicevamo, ma ha un limite: l'impossibilità di suonarlo dal vivo. Non pensi che questo possa rappresentare un problema?

«Sì, un enorme problema, soprattutto perché oramai i cd si vendono più che altro ai concerti! Infatti ho intenzione di trovare la soluzione al dilemma, e sto iniziando a preparare la versione live del progetto: alcuni brani potranno essere eseguiti con adeguata manipolazione elettronica in tempo reale, abbastanza fedeli al cd, altri subiranno delle opportune modifiche. Non si sentiranno soltanto delle differenze rispetto al disco, la mia intenzione è quella di sfruttare uno spazio sonoro in quadrifonia e un adeguato supporto di subwoofer, tutti particolari che l'ascolto casalingo o in cuffia non può fornire. Sarò accompagnato ovviamente da Alessandro, anche in veste di secondo contrabbassista - …ci siamo conosciuti proprio perché compagni di studi ai tempi del conservatorio - e da Emilio Pozzolini come altro musico elettronico. Il mio suono verrà manipolato in tempo reale in diverse maniere. Tutto è ancora da preparare, ma nelle mie intenzioni, vorrei presentare il cd questo autunno in diverse città, vedremo…».

Che cosa vorresti che le persone sentissero nella tua musica?
 

«Mi ritengo già soddisfatto se la sentono, o meglio se la ascoltano, come è sempre più difficile che accada. Come rilevi tu nella tua prima domanda c'è oramai la tendenza a un ascolto molto superficiale della musica; siamo circondati da un sacco di stimoli musicali, al limite, o forse già oltre il limite, dell'inquinamento acustico, eppure raramente siamo capaci di fermarci o soffermarci ad ascoltare. Oggi la modalità più comune di fruire della musica avviene su Youtube, magari perdendosi nei dettagli visivi, nei commenti, nello spazio di un social network, credo che questo sia abbastanza significativo».

C'è un episodio che ha dato il via a questa avventura?
 

«Francamente non saprei, direi che è stato un bisogno crescente di un'idea che prendeva forma mentre spingeva per realizzarsi».

Dove speri che possa portarti questa esperienza discografica?

«Spero possa essere un biglietto da visita per future collaborazioni, magari per altri lavori in studio, o per concerti. Ma non mi sono posto molto il problema delle aspettative, è un lavoro che ho fatto innanzitutto per me, una cosa che avevo in testa e che avevo bisogno di buttar fuori, ovviamente nella speranza che possa interessare, incuriosire o rapire un possibile ascoltatore».

Ascoltando il disco ho immaginato di adattare le canzoni a un film, magari a un thriller o a un film che analizza la psicologia dei personaggi. Hai mai pensato di scrivere musiche per film?

«Sì, e mi piacerebbe molto. Per il momento ho fatto poche cose simili, un cortometraggio, un documentario non ancora pubblico, la sonorizzazione di una mostra, oltre ad avere collaborato con alcuni compositori per musica da film. Io ci penso insomma, ma bisogna anche che qualcuno che fa film pensi a me, perché ciò accada. In ogni caso mi farebbe piacere che alcune tracce di questo album possano essere adoperate in qualche contesto, magari per film, per installazioni, per coreografie, secondo me si prestano e io sono ben disposto a prestarle».

Quale sarà il prossimo passo nella tua carriera artistica?
 

«Come già ho accennato: la versione live di "Le trame del legno"; un altro progetto a cui sto già lavorando, la produzione di un audiolibro con musica; alcune ricerche musicologiche sulla storia del contrabbasso. Questo è un altro settore che mi ha molto impegnato in prima persona».

Quali sono i pro e i contro di essere un solista?

«Nell'accezione in uso nella musica classica, "solista" è un termine che è ben distante dalla mia persona - di solito si intendono quei pochi musicisti che si esibiscono abitualmente come concertisti in recital o concerti solistici con le orchestre - e francamente anche grandissimi contrabbassisti che conosco ci vanno abbastanza cauti nel definirsi solisti. In un senso più generico posso dirti che proporre un progetto da leader o addirittura in solitario, può essere prima di tutto una fonte di soddisfazione, e inoltre, se il risultato prodotto riesce ad avere un suo mercato, ovviamente il guadagno può essere maggiore rispetto a musicisti al servizio di progetti non propri. I contro sono legati innanzitutto allo sforzo e all'investimento che bisogna fare per la realizzazione del progetto, e all'esposizione che si crea, il "metterci la faccia", la responsabilità, insomma. Solitamente si tratta di un impegno maggiore, di una maggiore difficoltà sotto il profilo tecnico-strumentale, ed esecutivo in senso lato. A ciò si aggiungono tutti gli aspetti organizzativi, di produzione e di promozione, se non si è seguiti da qualcuno e se non si dispongono di liquidità da investire ulteriormente in questi aspetti. Ma qua mi fermo, giacché non vorrei alimentare luoghi comuni sui genovesi e l'attenzione al denaro. Al di là di qualsiasi contro, è forte il piacere nel produrre qualcosa che ti appartiene e che è parte di te, e che può essere consegnata ad altri e condivisa; è un modo per rapportarsi con gli altri, per comunicare; è un gioco, tutto sommato, che fa star bene».



Titolo: Le trame del legno
Artista: Federico Bagnasco
Etichetta: Old Mill Records
Anno di pubblicazione: 2014



Tracce 
(musiche di Federico Bagnasco, eccetto dove diversamente indicato)

01. Spire
02. Apnea
03. Tempo al tempo
04. Coincidenze combinate [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
05. Sbracato snob
06. I am sitting in a bass [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
07. Velato
08. AbIpso
09. Sterpi e frattaglie [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
10. Legno pesante [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
11. In Vano [Federico Bagnasco e Alessandro Paolini]
12. Comunque
13. Residui
14. Lunari di Giada



martedì 10 giugno 2014

Con Les Trois Tetons alla scoperta di Mister Lou







"Songs about Lou" è il quarto capitolo discografico de Les Trois Tetons, gruppo savonese che da più di vent'anni porta in scena il verbo del rock'n'roll fatto di grinta, sudore e fisicità. A tre anni da "Dangereyes", la band capitanata dal cantante Roberto "Zac" Giacchello è tornata a far parlare di sé con un album che conferma l'ormai matura capacità di viaggiare nei territori del rock, dai Clash agli Stones, del blues del Delta e di certa psichedelia.
Indossate le camicie e lasciate sui palchi di mezza Italia l'energia, la carica emotiva e una buona dose di follia, il gruppo si è chiuso negli studi del Punto d'Incontro Italo Calvino a Loano, sotto la direzione di Alessandro Mazzitelli, per registrare questo nuovo progetto discografico. Un lavoro di équipe, e lo si capisce anche leggendo i crediti - sei brani sono scritti da Alberto Bella, quattro da Giorgio "Barbon" Somà, altrettanti da Roberto "Zac" Giacchello e uno a quattro mani da Giacchello e Bella -, che aggiunge qualche elemento importante alle esperienze precedenti. Una crescita artistica che ha portato il gruppo a sperimentare e a creare una sorta di concept album, diviso in due atti e una ouverture, che racconta le gioie e i dolori del personaggio Mister Lou. A impreziosire il disco vi è la partecipazione del funambolico violinista Fabio Biale che mette a disposizione il suo strumento in tre brani.
Con Zac abbiamo parlato della genesi del disco e dell'enigmatico personaggio Mister Lou. 



Quando abbiamo fatto la nostra ultima chiacchierata, ormai un anno e mezzo fa, avevate 4-5 canzoni e una serie di abbozzi. Adesso eccoci qui a parlare di "Songs about Lou"...

«È andato tutto abbastanza velocemente. Le registrazioni sono iniziate a novembre e si sono concluse a gennaio. Non ci sono stati intoppi e tutto è filato liscio ed eccoci con "Songs about Lou" che è uscito all'inizio di aprile».

Iniziamo dal titolo e dalla dedica a Lou Reed…

«C'era già l'idea di intitolare il disco Lou o qualcosa di simile, poi nel corso delle registrazioni è morto Lou Reed ed è venuto spontaneo dedicargli il nostro disco. Lou Reed è sempre stato fondamentale per la nostra musica, prima con i Velvet e poi da solo ha inciso molto sul nostro stile».

La traccia numero due del disco è appunto intitolata "Mister Lou"...

«È una canzone abbastanza lunga e articolata scritta da Burbon con una vena un po' autobiografica. Vi ha messo la sua visione del mondo, come pensa che le persone lo vedano. Una visione molto personale anche se un po' romanzata naturalmente. "Mister Lou" è stata una delle prime canzoni del nuovo album».

Mister Lou è anche il personaggio che ritroviamo in tutte le canzoni del disco...

«Quando abbiamo iniziato a scrivere queste canzoni non erano necessariamente collegate tra loro. Con "Mister Lou" è venuta l'idea di creare questo personaggio che poteva vivere delle avventure o disavventure nel corso di una storia. Quindi abbiamo provato a collegare le varie canzoni ed è per questo che nel disco ci sono anche brani brevissimi che non avrebbero senso estrapolati dal contesto».

Avete diviso il disco in due atti, quasi a voler richiamare la separazione in due facciate dei vecchi ma mai tramontati LP.

«Inizialmente c'era anche l'idea di pubblicare una versione in vinile ma per il momento l'abbiamo accantonata per questione di costi. La scelta di dividere l'album in due atti è dovuta anche al fatto che la storia si divide in due parti: nella prima viene presentato il personaggio, Mister Lou, con tutti i suoi problemi, i suoi travagli e il momento in cui decide di lasciare tutto e partire; la seconda parte descrive le avventure di questo personaggio».

C'è quindi volutamente anche una differenza di umore tra le canzoni del primo atto e quelle del secondo?

«In parte può essere vero visto che la prima parte racconta il disagio dell'esistenza che può essere in tutti noi. Il personaggio del disco vive questa situazione fino al punto di rottura e c'è appunto una canzone in cui dice 'basta, devo preparare tutto e andare via'».

C'è un lieto fine?

«Il finale è aperto a varie soluzioni, non c'è necessariamente una conclusione certa. L'ultima canzone descrive il ricordo di un amore che può dar vita al rimpianto oppure alla decisione di tornare indietro, non si sa. A me piace che sia l'ascoltatore a scegliere il finale preferito. È più bello non credi?».

Quale esperienza ha condizionato la lavorazione del disco?

«Non c'è stato un evento particolare ma una serie di situazioni che ci hanno portato a decidere di fare un disco diverso dai precedenti. Alberto ha avuto l'idea di pubblicare un concept album e per tutti noi è stata una situazione nuova. Penso che l'operazione sia pienamente riuscita».

Trovo che musicalmente sia più compatto e omogeneo rispetto al vostro precedente disco...

«Ci tenevo molto a fare un disco che fosse incentrato sul suono di due chitarre elettriche, un basso e una batteria. Credo che l'omogeneità e la compattezza del suono siano date dal fatto che tutti i pezzi sono suonati con la stessa strumentazione. C'è qualche intervento di violino ma non c'è una chitarra acustica e anche le seconde voci le abbiamo ridotte al minimo indispensabile. Ho voluto che fosse un disco abbastanza grezzo e diretto. Anche in occasione delle esibizioni dal vivo questa scelta ha i suoi vantaggi non essendo costretti a cambiare strumenti quando si passa da una canzone all'altra».

Non credi che usando sempre la stessa strumentazione possa esserci il rischio che i brani suoni un po' troppo simili tra loro?

«Devo dire che forse è più facile fare canzoni un po' tutte uguali e poi diversificarle con l'arrangiamento e la strumentazione. Invece noi partendo dalla voglia di mantenere costante gli strumenti utilizzati abbiamo dovuto cercare di variare molto dal punto di vista musicale. Le canzoni del disco sono molto varie come struttura, un po' diverse da quelle che abbiamo suonato in precedenza. È un disco molto live, le parti di basso, chitarra e batteria sono state registrate in presa diretta. Abbiamo sovrainciso solo la voce, qualche assolo, il violino e le armoniche».

Rock'n'roll è e rimane ma questa volta c'è questo filo conduttore che lega le canzoni. "Songs about Lou" è il vostro primo concept album…

«Il concept è un format molto utilizzato dal progressive però anche il rock'n'roll ha partorito dischi che ruotano attorno a un unico tema o sviluppano una storia, penso allo "Ziggy Stardust" di David Bowie o lo stesso "New York" di Lou Reed. Decidere di provare a realizzare un concept è stato un ulteriore stimolo per dare un corso diverso a un album che altrimenti avrebbe finito per essere un raccoglitore di canzoni scritte in un determinato periodo e scelte perché suonano bene insieme».

Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato nella realizzazione del disco?

«Sicuramente nel cercare di legare le varie canzoni in modo che fluissero e che le atmosfere fossero simili. Siamo stati obbligati a pensare non solo alla canzone del momento ma anche a quella che precedeva e a quella che veniva dopo. Più complicato sicuramente».

Altro aspetto interessante è rappresentato dall'overture che apre il disco...

«Mentre registravamo mi è venuto in mente che c'era un disco bellissimo dei Blood, Sweat & Tears intitolato "Child is father to the man", suonato molto bene, intenso, articolato che spazia dal jazz alla bossa nova, con arrangiamenti dei fiati pazzeschi. In quel disco c'è proprio l'overture in cui vengono esposti i temi delle varie canzoni e noi abbiamo provato a fare una cosa simile anche se non ci siamo completamente riusciti perché di temi ne abbiamo messi solo tre e non dodici come invece avremmo dovuto. Però mi sembra che renda bene come inizio, è una bella botta e anche dal vivo è interessante iniziare con uno strumentale. Non lo avevamo mai fatto».

In tre canzoni del disco suona anche il violinista Fabio Biale. Come è nata questa collaborazione?

«Sono quei casi fortunati della vita. Non vedevo Fabio da molto tempo e sono andato a trovarlo nel suo negozio. Abbiamo parlato del disco e mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere suonare un paio di pezzi con noi. Gli ho mandato dei brani da ascoltare e lui, con la sua maestria e il suo gusto, ha dato un bel contributo. È bravo sia come musicista da studio che sul palco, è una presenza che ti dà una marcia in più. Abbiamo avuto anche la fortuna di averlo con noi in occasione del concerto di presentazione del disco che si è tenuto al Raindogs a Savona. Speriamo di averlo nuovamente con noi in qualche altra occasione».

Alessandro Mazzitelli, oltre ad aver svolto egregiamente il lavoro di fonico, ha suonato il tanpura nella canzone "Wide mouth". Perché questa scelta?

«Questo pezzo si dilata un po' nella parte centrale, è una improvvisazione, una canzone più libera, un po' alla Grateful Dead per intenderci. L'abbiamo incisa tre-quattro volte e poi abbiamo scelto la seconda take, se non ricordo male. Risentendo la traccia, a Mazzitelli è venuta l'idea di aggiungere il suono di un tanpura, uno strumento indiano che devo ammettere non conoscevo, e il risultato è interessante. Contribuisce a creare una particolare atmosfera».

Torniamo alla canzone "Wide Mouth". Nelle note del disco si legge che è ispirata al racconto scritto da Luca Oddera e intitolato "Bocca larga". Ci puoi dire qualcosa in proposito?

«Oltre a essere un amico e il proprietario del Beer Room di Pontinvrea, uno dei locali più belli della zona, Luca ha la passione per l'Africa, dove ogni anno trascorre parecchi mesi. Ma per chi non lo sapesse è anche un bravo scrittore. I suoi libri sono memoriali di viaggio. Attualmente ne ha uno in cantiere che ho avuto la fortuna di leggere. È molto più romanzato, ci sono racconti a volte più concreti altre volte più onirici. Tra tutti i racconti c'è questo "Bocca larga" in cui ci sono una serie di immagini particolari che mi hanno molto colpito. Ne ho estrapolate alcune e ne ho scritto un testo in inglese. Essendo il racconto molto onirico lo abbiamo messo su un giro di basso di Alberto sul quale poi abbiamo continuato a jammare facendo improvvisazioni anche di 10-15 minuti. Alla fine gli abbiamo dato una forma canzone con due parti cantate intervallate da una parte strumentale. È stata una operazione un po' rischiosa perché non sapevamo dove saremmo andati a parare, poteva anche essere un 'polpettone' e invece ho visto che la canzone piace e dal vivo ha un impatto interessante».

Vedo che hai dato seguito all'esperimento di cantare anche in tedesco inserendo una strofa in "Asphaltnacht". Anche se devo confessarti che dopo "Berlin 1987" mi aspettavo più coraggio da parte tua...

«Un testo intero in tedesco non mi oso ancora cantarlo. Però questa è di nuovo una bella storia. A ispirarmi è stato un film del 1980, "Asphaltnacht", che in Germania è un cult. Un amico tedesco mi ha dato il dvd di questo film che penso non sia mai uscito sottotitolato. L'ho visto tre-quattro volte di seguito e mi ha entusiasmato. Ho preso spunto da queste avventure e qualche frase in tedesco ci stava bene».

Sbaglio o questo è il primo disco con Davide Incorvaia alla batteria?

«Sì, esatto. Davide è con noi da due anni e ha preso il posto di Guido che per dodici anni è stato il batterista del gruppo e aveva dato una impronta precisa al nostro suono. Davide devo dire che si è inserito benissimo e ha dato un bel contributo. Era molto motivato anche perché era il primo disco che faceva con noi. È stato bravissimo, preparato anche in fase di pre-produzione e poi si è rivelato essere un ottimo grafico, siamo stati fortunati».

Infatti, anche la copertina e la grafica del disco è opera di Davide...

«Ed è la prima volta che abbiamo una copertina disegnata e non una fotografia che ci ritrae. Anche questa è una bella novità. Il disco è pieno di belle novità».


Titolo: Songs about Lou
Gruppo: Les Trois Tetons
Etichetta: autoproduzione
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce

01. Overture  [Bella]
02. Mister Lou  [Somà]
03. Hey Girl  [Somà]
04. Green is the dream  [Somà]
05. Midnight crisis  [Bella]
06. Breaking point  [Somà]
07. Weeping willow  [Bella]
08. Leaving  [Bella]
09. I won't be back for Christmas  [Giacchello]
10. Asphaltnacht  [Giacchello]
11. Wide mouth  [Giacchello/Bella]
12. Throne made of bones  [Giacchello]
13. After the laughter  [Bella]
14. Peculiar  [Bella]
15. Long fingered hands  [Giacchello]