martedì 24 febbraio 2015

"Dietro il Mondo" eretico dei Laik-Oh!






Con "Dietro il Mondo" i Laik-Oh! aprono la finestra su un universo visionario dominato da atmosfere cupe e sinistre e in cui l'uomo deve fare i conti con le proprie paure e disillusioni. La band mantovana, al suo esordio discografico, lo descrive in sette canzoni dalla grande potenza evocativa e con un suono suggestivo che abbraccia l'elettronica e pesca in ambito dubstep e alternative. Un suono sperimentale, pulsante e in continuo movimento che plasma le storie e i racconti in un unicum dal sapore amaro. Canzoni che raccontano lo sconforto dell'uomo nel momento in cui si rende conto che i cardini della società e i concetti su cui ha basato la sua esistenza sono illusori e menzogneri. Solo in rari frangenti del disco i Laik-Oh! fanno entrare un piccolo sprazzo di luce, di speranza, in questo mondo e in questa società disillusa.
Bastano pochi secondi di ascolto del disco per ritrovarsi immersi al centro di questo universo, avvolti da abiti pesanti, dalle tinte scure e carichi di disillusioni. Con "Secoli di stragi", canzone che apre il disco, i Laik-Oh! puntano il dito contro ogni genere di violenza giustificata da moventi religiosi. E proprio la laicità e la profonda delusione nei confronti delle autorità eclesistiche sono uno dei punti di partenza da cui si sviluppa il pensiero del gruppo. Nel disco si affronta anche il tema del viaggio e dell'Oriente, visto come possibile via di fuga da questa società.
Il gruppo, nato agli inizi del 2012, è composto da Mattia Bortesi (voce e sintetizzatori), Michele "Panf" Mantovani (chitarra, sintetizzatori, loops e beats), Luca Peshow (basso e cori).
Ed è stato Mattia Bortesi a rispondere alle domande dell'intervista che ci fa scoprire questa nuova interessante realtà musicale.




Inizio questa intervista chiedendoti il significato del nome del vostro gruppo…

«"Laik-Oh!" significa sostanzialmente laico, ovvero "aconfessionale". Una scelta figlia del fatto che l'essere slegati da qualsiasi autorità ecclesiastica (ma potrei dire anche l'esserne profondamente delusi) era un po' uno degli aspetti che avevamo maggiormente in comune fin dagli inizi».

Quando è nato il gruppo?

«La band è nata tra il 2011 e il 2012 in una sala prove, scaldata con una stufetta a kerosene, che era anche difficilissima da raggiungere perché la macchina si impantanava nel fango. Michele, detto "Panf", voleva iniziare un proprio progetto electro-rock e ha chiesto a Luca di suonare il basso. Dopo qualche prova, però, si sono resi conto che serviva una voce e altre mani per suonare, così la mia insistente autocandidatura - suonavo già con Luca in un altro progetto - è risultata fatale».

Venite tutti da esperienze in ambito rock ma nel vostro disco puntate con decisione sull'elettronica con influenze dubstep e alternative. È questo l’ambito musicale in cui vi sentite più a vostro agio?

«In effetti si può dire che i nostri primi progetti musicali siano stati tutti molto più rock di questo. Ma se c’è una cosa scomoda da fare è sicuramente classificare questo disco. In "Dietro il Mondo" abbiamo sperimentato tanto: si alternano momenti più rock a parallele digressioni più ambient e annacquate in una ritmica electro. Il difficile poi è stato inserire, in tutto ciò, i testi in italiano in grado di tradurre in parola delle tonalità di lamento e di disillusione».

Quali sono le linee guida dell'album e quale messaggio porta con sé?

«I brani di "Dietro il Mondo" raccontano lo sconforto che accompagna l'uomo nel momento in cui si accorge quanto siano illusori e preconfezionati alcuni concetti e istituzioni cardine della società. La prima amarezza è immediata e riguarda non solo la fede cattolica ma tutti i teologismi, i loro soprusi e le violenze che, purtroppo, sono anche oggi di grandissima attualità. C'è poi anche il tema del viaggio, del tentativo di trovare nell'Oriente o nella natura (e nelle stagioni) qualcosa che possa risollevare da questa infelicità. A tratti è quindi un racconto molto leopardiano che ricama, tra musica e testi, delle atmosfere sinistre, tendenti all'eretico».

Sulla copertina campeggia una geisha che si specchia seduta sul mondo e l'oriente torna alla ribalta con la canzone "Asian trip". Cosa rappresenta per voi l'oriente, artisticamente e anche dal punto di vista umano?

«La dicotomia Oriente-Occidente è uno degli aspetti più limitanti che stanno in questo mondo, "Dietro il Mondo" per l'appunto. La nostra occidentalità traduce tutto ciò che vediamo, ne cambia i colori e i sapori. Purtroppo nell'estremo oriente non ci siamo mai stati ma è bello pensare che un viaggio l'abbia potuto fare l'uomo protagonista del nostro album. La geisha in copertina poi è proprio bella (due di noi se la sono già fatta tatuare) e vestendosi con il pianeta Terra simboleggia al massimo questi concetti».

Continuiamo a parlare della canzone "Asian trip pt. 1" in cui c'è un ospite speciale, Michele Negrini in arte Mud dei Terzobinario. Quando si sono incrociate le vostre strade?

«Michele Negrini è un cantante, è una voce. Però non solo: ha insegnato canto a Luca e a me, è il mio vicino di casa e sono innumerevoli ormai le occasioni artistiche in cui le nostre strade si sono incrociate. Musicalmente siamo distanti da lui - Mud potremmo definirlo un "cantautore alternative-pop" - però la richiesta di questo featuring ci è venuta spontanea. Sapevamo che con le sue sperimentazioni vocali il brano sarebbe potuto diventare molto bello, e così è stato! Il mio rapporto da vicino di casa con Michele Negrini va raccontato. Di solito ci si chiede il burro o la farina oppure ci si denuncia perché il cane fa i bisogni nell'altro cortile o uno ascolta la musica ad un volume esagerato; in questo caso, invece, ha vinto la musica: noi abbiamo chiesto una voce a Mud per il nostro primo lavoro e lui a me una chitarra per il suo primo album, "D'amore e di fango", uscito pochi giorni fa».

Nel disco si possono trovare riferimenti a John Hopkins, Moderat ma anche indierock italiano come Afterhours e Teatro degli Orrori. Chi di voi detta la rotta e su quali insegnamenti avete costruito la vostra unione?

«"Panf" negli ultimi anni è diventato progressivamente un divoratore d'elettronica. È lui che traccia la rotta compositiva della band. Naturalmente gli altri membri danno il loro contributo e mentre il brano cresce si arricchisce di sfaccettature che arrivano dai vari insegnamenti musicali ricevuti. In realtà l'indierock italiano ormai non lo ascoltiamo praticamente più! Gruppi come il Teatro degli Orrori però sono stati fondamentali per farci incontrare e conoscere come persone dato che diversi anni fa, proprio in quei "poghi" sudati, abbiamo iniziato a fraternizzare. Ora siamo sicuramente su altri ascolti ma se ti dovessi dire un gruppo che all'inizio ha influenzato maggiormente la band direi gli Aucan».

Il disco si apre con "Secoli di stragi". Una canzone e un titolo che sono un biglietto da visita impegnativo, non credi?

«Il brano "Secoli di stragi", del quale c'è anche il bellissimo videoclip realizzato da Giovanni Tutti, è sicuramente un inizio tosto e impegnativo! Sia per il testo che per l'argomento che tratta, ovvero tutte quelle occasioni nella storia dell'uomo nelle quali si è abusato di un movente religioso per spargere sangue e morte, dalle crociate in avanti. Il tema è forte così come lo sono le immagini del video ma noi siamo fortemente convinti di questo e penso che la cosa traspaia abbastanza facilmente».

Le atmosfere restano cupe ne "Il racconto dell’uomo deluso" come in "Assalto all’inverno". Perché tutta questa disillusione? Sono i tempi che portano questi pensieri o alla base ci sono esperienze personali?

«Ovviamente non ci siamo imposti queste tonalità noire e pessimiste a tavolino. Sono sensazioni che sono venute fuori pian piano, dai tempi in cui stiamo vivendo e dalle esperienze che tutti i giorni ci troviamo ad affrontare e a conoscere. Tutto questo ha generato delle tinte che non potevano non colorare i nostri brani».

Nella società di oggi chi è il "Neopagano"?

«Oddio, spero non esista. Però è una sorta di provocazione. Vengono ancora perseguite idee talmente vetuste che non mi sorprenderei se si ricominciasse a leggere il futuro guardando nelle interiora degli animali. Tornare al paganesimo nel ventunesimo secolo in quest'ottica non è poi così impossibile, gli altari mediatici sui quali praticare i sacrifici non mancano».

Avete lasciato qualche brano nel cassetto?

«Pochi, qualcosa di vecchio che abbiamo ripreso e aggiornato. Ora stiamo più che altro suonando live ma in testa c'è l'idea di tornare a comporre, magari qualcosa di diverso che segni un'evoluzione. Il futuro è comunque tutto da scrivere».

In quali territori musicali vi piacerebbe sperimentare?

«Già si sperimenta a cavallo di due o tre territori. L'augurio che ci facciamo è quello di poter ritagliare più tempo per comporre ancora tanto e creare un ambiente musicale più circoscritto e magari più elettronico». 


Titolo: Dietro il Mondo
Gruppo: Laik-Oh!
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2014

Tracce
(musiche di Laik-Oh!, testi di Mattia Bortesi)

01. Secoli di stragi
02. Assalto all'inverno
03. Asian trip pt. 1
04. Il racconto dell'uomo deluso
05. Neopagano
06. Asian trip pt. 2
07. Nel temporale




lunedì 16 febbraio 2015

Cristina Nico, dal Premio Bindi a "Mandibole"





Con l'album "Mandibole" Cristina Nico ci porta in fondo al mare a scoprire l'abisso. Un luogo oscuro dove esperienze personali, ossessioni interiori, gioie e soprattutto dolori regalano una visione disincantata del vivere attuale. La cantautrice genevose, vincitrice della decima edizione del prestigioso Premio Bindi con la canzone "Le creature degli abissi", lo fa con testi amari, caustici, intrisi di malinconia ma allo stesso tempo conditi con una buona dose di ironia e sarcasmo. Una scrittura ispirata, poetica e immediata in cui si rintraccia l'urgenza espressiva dell'esordio ma allo stesso tempo è evidente quanto il tutto sia stato meditato, studiato e "lavorato". Vibrante è l'interpretazione da parte della Nico che asseconda con maestria vocale i momenti minimali e quelli più intensi del disco. Musicalmente si rimane in ambito rock, forse non convenzionale ma le chitarre elettriche ricordano, in alcuni frangenti, sonorità degli anni '70 e creano un substrato pulsante e vivo. Un disco che merita l'ascolto e che è capace di stimolare la curiosità in chi ha voglia di esplorare gli abissi.
Ci ha pensato poi Tristan Martinelli, coproduttore del disco insieme alla Nico e in precedenza a fianco di Numero 6, Dejan e L'Orso Glabro, a dare una impronta decisa alle canzoni, registrate al  Greenfog Studio di Genova da Mattia Cominotto e masterizzate da Raffaele Abbate alla OrangeHome Records. Al disco hanno contribuito anche Jacopo Ristori (violoncello), Alessandro Alecsovitz (violino), Enrico Bovone (batteria e percussioni), Mattia Cominotto (chitarra e cori), Sabrina Napoleone e Valentina Amandolese (cori).
L'album, pubblicato dopo i precedenti Ep autoprodotti "Cinnamomo" del 2006 e "Daimones" del 2010, è l'argomento principale dell'intervista ma Cristina Nico ci regala anche un quadro molto interessante della sua visione della società di oggi.




Quali sono i pregi di Cristina Nico?

«Dio bono, cominciamo bene! In questo momento ogni mio pregio mi sembra abbia il suo corrispettivo in un difetto e viceversa. Comunque ci provo: il sense of humour (quando sono in buona), una discreta onestà (che non ha nulla a che fare con la coerenza), l'istinto di sopravvivenza (che non vuol dire saper vivere), una buona immaginazione (o sono solo allucinazioni?)».

…e i difetti?

«A volte vedo prima gli aspetti negativi della realtà (il che vuol dire però gioire alla grande di fronte alla bellezza anche di piccole cose). Mugugno parecchio. Sono piuttosto schizofrenica, mi butto giù un sacco oppure mi esalto».

Da poche settimane hai pubblicato il tuo primo disco, "Mandibole". Perché dovremmo ascoltarlo?

«Perché ci ho investito i miei risparmi. E perché è un bel disco, suvvia».

Il disco si apre con "Creature degli abissi" che ha la struttura di una ouverture, quasi fosse l’inizio di un concept album che poi alla fine non si sviluppa, almeno non completamente. Mi sbaglio?

«È un'ouverture, è vero. È uno dei pezzi che ho scritto quando gli altri inclusi nel disco erano già stati composti. Più che alludere ad un concept, è una dichiarazione poetica, una sorta di lettera di presentazione su quello che ci si può aspettare da me e quello che non posso fare attraverso la mia musica e il mio modo di essere».

In un verso di "Formaldeide" parli di <artisti occidentali annoiati e stanchi>. E quindi dove possiamo trovare artisti attivi e pieni di energia?

«Chissà... forse dove c'è meno disincanto, dove c'è più speranza di creare qualcosa attraverso delle idee forti di cambiamento perché magari la libertà non è una cosa scontata. Penso ad un artista (visivo) come il cinese Ai Weiwei, che da una parte sa sfruttare i media, innestarsi sul percorso già battuto dall'arte concettuale occidentale. Ma la pelle l'ha rischiata davvero per denunciare la mancanza di libertà e informazione nel suo paese e, per chi lo conosce, i messaggi delle sue opere sono delicati e potenti assieme».

Mi ha fatto riflettere l’incipit di "Cocoprosit". <Non sprecare il tempo in cose necessarie ma inutili che non nutrono il tuo spirito>. Mi sono divertito a elencarne un po’. Possiamo sapere quali sono invece le cose che tu consideri inutili ma necessarie?

«Credo ce ne siano tante di cose 'inutili ma necessarie'. Prendi il lavoro: sono poche le persone che riescono a vivere facendo un mestiere che le appaghi davvero. Però portare a casa la pagnotta è una necessità, no? Solo che non si può pretendere dal lavoro una piena soddisfazione di bisogni più profondi, chiamiamoli pure spirituali o anche semplicemente morali, emotivi, affettivi. Non voglio sminuire l'importanza del lavoro, tutt'altro, ma credo ci siano delle false mitologie in merito, accresciute dal fatto che molti non lavorano o si trovano a lavorare in condizioni assurde, che creano ancora più frustrazione e false aspettative…».

Il concetto viene ribadito in "Giorno dopo giorno" quando dici di non perdere energie e di concentrarsi su una sola via. Tu hai trovato la tua via oppure i testi delle canzoni sono lo specchio di uno tuo smarrimento esistenziale?

«La mia via è lo smarrimento esistenziale!».

Che significato ha la lucertola di "Cocoprosit"?

«È un animale reale e simbolico assieme. È la lucertola che realmente ho visto spesso sulla tomba di mia madre e a cui ho dato un ruolo di tramite, di messaggero fra il mondo dei vivi e dei morti, della luce e delle ombre. Da bambina le lucertole mi affascinavano perché le vedevo palpitare, per via di quel movimento respiratorio rapidissimo, sembra che si gonfino e si sgonfino continuamente, come dei piccoli mantici».

Le "Mandibole" sono un accessorio meccanico che non ha distinzione di classe, non credi?

«Sì. È un accessorio meccanico, primitivo, che ci accomuna a quasi tutti gli altri animali. Ci servono per mordere, masticare, lacerare, urlare... a volte anche il nostro modo di assimilare concetti, informazioni è un po' meccanico. Inghiottiamo quello che ci mettono in bocca, come quegli uccellini che stanno a fauci spalancate in attesa che i genitori le riempiano di cibo predigerito. Ma prima o poi bisogna imparare a scegliere il 'cibo' giusto, masticarlo e digerirlo».

Sei meteoropatica?

«Un poco... il mio umore è piuttosto 'nivuro' in quelle giornate in cui il cielo sembra essere pesante, appeso, in attesa di scaricarsi in pioggia. Ma in "Meteoropatia" prendo anche un po' in giro coloro che si beano di certi atteggiamenti post-esistenzialisti, me stessa in primis».

Nel disco si affrontano e si confrontano un "io" molto personale e un esterno. È il tuo mondo contro quello che c’è al di fuori?

«Non direi 'contro': c'è il mio mondo che cerca di incontrare quello esterno, anche se a volte tende a rintanarsi in se stesso. Nelle canzoni di "Mandibole" parto spesso da un 'io' che poi diventa 'noi', in questo senso credo sia un disco tanto lirico quanto corale. Non amo le visioni dall'alto, mi sono più congeniali quelle dal basso e dall'interno».

Perché hai scelto di chiudere il disco con la cover di "Mother stands for comfort" di Kate Bush?

«Perché volevo includere un omaggio a un'artista che forse non è tra le mie prime ispirazioni ma che ammiro molto, anche se le sue sonorità sono apparentemente lontane dalle mie: sia io che Tristan siamo più influenzati dalle sonorità degli anni Sessanta e Settanta. La cosa curiosa è che nel fare la cover di "Mother stands for comfort" abbiamo preso un pezzo degli anni Ottanta e ne abbiamo fatto un pezzo anni Novanta!».

Sei nata a Genova ma so che le tue origini sono più lontane… Cosa ti hanno lasciato, a livello umano e naturalmente musicale?

«Tre nonni su quattro erano calabresi. Terre aspre che improvvisamente si aprono in piane verdissime, fiumare limacciose dove vivono grandi granchi, gli incendi che di notte illuminavano i dorsi dei monti... e poi le spiagge di Capo Vaticano, quasi selvagge prima dell'arrivo massiccio del turismo: queste le 'visioni', forse un po' bucoliche, che si sono impresse nei miei paesaggi interiori, che hanno composto il mio Sud come luogo mentale e quasi metafisico. I canti liturgici e le musiche eseguite dalle bande di paese nelle processioni poi su di me avevano grande suggestione: nel ritornello de 'La litania dei pesci' le voci femminili del coro richiamano quella vocalità particolare delle donne che eseguivano i canti alla Madonna nelle processioni. Però nelle mie radici c'è anche la memoria della malinconia, della povertà, del disagio patito dai miei nonni e zii migranti».

Come si fa ad essere cantautrici a Genova? Non trovi che il passato della "scuola genovese" sia ingombrante e che inevitabilmente si tenda a fare confronti con il passato?

«Certo, è un passato importante. Ma le cantautrici di questa nuova ondata genovese secondo me hanno seguito percorsi che si spostano un po' dal solco della vecchia scuola, sia per sonorità che per modalità di scrittura, anche se c'è grande rispetto del passato. Forse anche perché di donne cantautrici, ahimé, è rimasta poca traccia. In un certo senso siamo potenzialmente più libere dei colleghi maschietti».

Hai dei riti precisi nella scrittura delle canzoni?

«No, a volte ho una frase o un'immagine che comincia a girarmi nella testa, altre volte parto da un riff di chitarra o un'armonia. Mi son accorta che spesso gli spunti arrivano in maniera inconscia da conversazioni noiose e da pasti consumati in fretta».

Secondo te le donne hanno più sensibilità nello scrivere canzoni?

«Ma no, non credo proprio. Credo, questo sì, che ci sia una sensibilità leggermente diversa, ma niente di fisiologico. È solo questione di educazione, di ruoli sociali, che portano ancora ad esprimerci e filtrare le nostre emozioni e i nostri pensieri in modo un po' diverso dagli uomini. Cosa che magari finisce per portarti ad essere estremamente lirica e intimista o molto incazzata e dirompente!»

Se potessi vestire per un giorno i panni di un musicista chi sarebbe e perché?

«Un bravo pianista classico, che sa leggere la musica».




Titolo: Mandibole
Artista: Cristina Nico
Etichetta: OrangeHome Records
Anno di pubblicazione: 2014


Tracce
(musiche e testi di Cristina Nicoletta, eccetto dove diversamente indicato)

01. Le creature degli abissi
02. Formaldeide
03. L'inopportuna
04. Cocoprosit
05. Giorno dopo giorno
06. La litania dei pesci
07. Mandibole
08. Metereopatia
09. Mother stands for comfort  [Kate Bush]



mercoledì 4 febbraio 2015

"Tramps & Thieves", l'esordio dei Four Tramps




Classic rock americano, esplosivo rock inglese anni '60/'70, una spruzzata di punk e una solida base di malinconico blues. Sono questi gli ingredienti di "Tramps & Thieves", album d'esordio dei Four Tramps, pubblicato in questi giorni dall'etichetta ferrarese New Model Label. La band emiliana è nata nel 2011 dall'incontro di diverse anime con alle spalle percorsi artistici differenti. Questa eterogeneità di stili e di influenze si riversano inevitabilmente anche nella musica e nelle canzoni che compongono il disco, registrato a partire da febbraio del 2014 al Vox Recording Studio di Reggio Emilia. È un album ricco e vario, ma allo stesso tempo omogeneo nell'approccio, nelle linee melodiche e negli assolo, e per quella ispirazione blues che permea tutto il disco. Una musica che si tinge inevitabilmente delle influenze di Muddy Waters, Doors, The Who, dei Rolling Stones degli esordi. Le canzoni raccontano invece la condizione degli ultimi, di coloro che non hanno più il controllo della propria esistenza e a cui è stato portato via tutto, di chi deve vedersela con il proprio demonio e la propria solitudine. E così i Four Tramps ci raccontano i drammi di persone anziane costrette a fare i conti con la violenza della natura, di altre travolte da dissesti finanziari o dall'assurdo diffondersi di armi in una società sempre più dominata dalla violenza. Canzoni che pongono interrogativi sul mondo e sull'attualità senza tralasciare però momenti più surreali e spensierati.
Il gruppo è composto da Simone Montruccoli (voce, chitarra e armonica), Davide Guzzon (chitarra, slide e cori), Elia Braglia (basso e cori), Joe Osiris (batteria). 
Con Simone Montruccoli abbiamo approfondito la conoscenza della band e abbiamo parlato del disco d'esordio dei Four Tramps.



Il progetto Four Tramps è nato nel 2011 e ora ecco il vostro primo disco. Cosa avete fatto in questi anni e quando avete seriamente pensato di registrare il disco?

«Noi tutti veniamo da realtà diverse, da generi musicali diversi, e ognuno ha dei gusti personali a volte anche abbastanza discordanti con gli altri membri. Agli inizi, durante la realizzazione dei primi pezzi, abbiamo sperimentato molto, spaziando tra più sottogeneri del rock. Canzoni di chiara natura punk rock (da dove alcuni di noi provengono), brani più grunge o indie, classic rock, ma anche i primi accenni di blues. Da lì abbiamo registrato nella nostra sala prove una demo distribuendola gratuitamente ai nostri primi concerti. Lo sperimentare dei primi anni ci ha portati verso un'unica direzione, quella attuale, che definiamo rock d’ispirazione anni '60/'70 a forti tinte blues. Dopo aver suonato nei vari locali della zona, e messo da parte qualcosa a livello economico e di esperienza artistica, abbiamo pensato che era giunto il momento di registrare un disco "fatto bene" in uno studio di registrazione adeguato. Così nel 2014 abbiamo registrato il nostro primo album ufficiale "Tramps & Thieves"».

Chi sono i Four Tramps e perché questo nome?

«Alcuni di noi sono amici di vecchia data, altri si sono conosciuti grazie a collaborazioni passate quando si suonava rispettivamente in altre band e il nostro membro più giovane è stato trovato tramite un annuncio su un giornale locale. La scelta del nome è stata lunga e difficile. Sul piatto avevamo tante proposte. Alla fine si è scelto il nome attuale un po' per ricordare il tema del "viaggiatore" e delle "esperienze" vissute in giro per il mondo, raccontate spesso nei nostri brani, e un po' per evidenziare il nostro occhio critico nei confronti di quello che attualmente succede nella società. Per qualcuno di noi anche la citazione "Tramps like us, baby we were born to run" di un noto brano di Springsteen ha avuto la sua influenza».

Perché avete registrato un disco quando ai giorni d'oggi lo comprano in pochissimi?

«In primis per soddisfazione personale. Non tutte le band, grazie al cielo, si formano con l'unico intento di sfondare e ottenere successo. È semplicemente la cosa più divertente al mondo, e creare qualcosa, in questo caso un album, dà molta soddisfazione. Se questo sforzo poi lo si riesce a vendere viene da sé che tale soddisfazione aumenta. Inoltre se si vuole suonare il più possibile anche in territori al di fuori della propria provincia, è necessario avere un qualcosa da far ascoltare per presentarsi e promuovere la propria band. La concorrenza è tantissima, e anche nei piccoli club non è più così facile entrare nella programmazione stagionale. Sulla fiducia non ti fanno esibire. Avremmo potuto sfruttare solo il mondo digitale ma il fascino dell'oggetto fisico per noi, e ci rendiamo conto per pochissimi altri, è unico e inimitabile».

Come sono nate le undici canzoni del cd?

«Generalmente partiamo da un riff di chitarra o una sequenza di accordi, poi insieme in studio cerchiamo di costruire tutta la canzone. Poi, con l'aggiunta di un testo, si prova a completare e aggiustare l'opera cercando di capire l’intensità necessaria con la quale suonare ciò che si canta, raggiungendo un equilibrio emotivo tra musica e canto. I testi a volte suonano di critica su alcune questioni della nostra società, altri sono indubbiamente più spensierati o surreali, spesso conditi da ironia, e altri trattano questioni private e fatti di cronaca».

Cosa rappresenta per voi il blues?

«Il blues è il primo punto di un albero genealogico, un nonno che ti racconta la sua saggezza e le sue esperienze, un manuale d'istruzioni fondamentale dal quale attingere per il concepimento della musica pop/rock, ma anche il manuale per cantare con l'anima e con la credibilità necessaria».

Quali sono gli artisti blues che amate di più e come li avete scoperti?

«Credo che ognuno di noi sia entrato nel mondo del blues seguendo quei musicisti rock, in particolare della scena inglese, che a loro volta hanno fatto sentire al mondo intero, a modo loro, quei riff. Ovviamente Rolling Stones, Led Zeppelin, Eric Clapton e molti altri. Ma se torniamo all'America di colore, sicuramente i grandi nomi come Muddy Waters, John Lee Hooker e il leggendario Robert Johnson li apprezziamo molto, e ovviamente il rispetto è infinito per questi miti. Per venire a conoscenza di questa musica non possiamo certo dire che siano stati i mass media attuali ad aiutarci. Abbiamo però fratelli più grandi e anche genitori che ci hanno indirizzati "bene", fortunatamente. Viviamo in una provincia in cui la musica dal vivo si riesce ancora a fare, e soprattutto c'è una scena blues molto attiva. Artisti locali come il grandissimo Johnny La Rosa e tante altre band che oltre ad eseguire magnifici brani propri, suonano grandi classici di artisti americani e inglesi. Possiamo dire quindi che probabilmente ci siamo nati e ci viviamo tutti i giorni col blues. Certo deve comunque interessarti la musica dal vivo e bisogna frequentare i posti giusti».

Oltre al blues, la vostra musica subisce l'influenza del rock di matrice anni '60/'70. Perché la vostra musica guarda al passato? Non vi piace il presente e il futuro che verrà?

«Il presente non ci fa impazzire. Ci sono tante band dei giorni nostri che ascoltiamo e apprezziamo. Ma in linea di massima tra i gruppi più in voga e noti degli anni 2000 c’è poco che ci convince. Più interessante scoprire band o artisti che fanno parte di qualche nicchia ma che mantengono standard qualitativi alti. I grandi nomi degli anni '70 probabilmente avevano (o hanno, per quelli che ci sono ancora) una cosa che adesso non è più così diffusa: il carisma! Ancora oggi sono i grandi nomi del passato a riempire gli stadi e i festival, e a fare concerti lunghi non meno di due ore».

Da una parte il Mississippi e dall’altra il vostro Po. Ci vuole sempre un grande fiume per avere certe atmosfere?

«Diciamo che dalle nostre parti si gioca spesso con questa associazione Mississippi e Po, e sono tante le manifestazioni musicali blues sulle rive del nostro grande fiume, come il noto "Rootsway - Roots'n'Blues & Food Festival". La suggestione e l'atmosfera speciale che si crea durante questi eventi estivi è davvero affascinante. Se non ci fosse il fiume, sarebbe quindi uguale? Per noi no».

Nel disco non mancano canzoni di denuncia come "22 crickett". Ci raccontate da dove nasce e quale significato ha?

«La canzone nasce da un fatto di cronaca vera, sentito semplicemente al telegiornale. È una sorta di denuncia alla cultura americana dell'armamento incontrollato della società civile. Pare che avere un'arma nel comodino sia un fatto normale. E la cosa che più ci ha colpito è la vendita on-line di queste "armi da bambino" come i pink rifle, che sono vere e proprie armi, non giocattoli. Quindi l'incidente è all'ordine del giorno. Non è il fatto di essere antiamericani, ma il fatto di denunciare come anche nella nostra società Occidentale, considerata democratica e avanzata, ci siano enormi buchi neri e contraddizioni».

Con "Morning spread blues" puntate l’indice contro certa finanza. Ma alla maggioranza dei giovani d'oggi siete sicuri che interessi qualcosa?

«Negli ultimi anni l'economia e la capienza delle nostre tasche sono influenzate da quella cosa astratta e gestita da poche persone al mondo che si chiama finanza. Dubitiamo che un ragazzo di 16/20 anni dia il giusto peso a questo concetto. Ma prima o poi ci si accorge che le cose non vanno proprio bene. Sicuramente avrebbe più "appeal" parlare, o meglio, "rappare" di sesso, droga, ragazze, fare video con culi al vento, collane d'oro, eccetera eccetera… Ma i nostri modelli sono altri. E il discorso della "Rivoluzione delle Coscienze" alla Joe Strummer (col dovuto rispetto) ci interessa di più».

In "Tremblin' land blues" parlate del terremoto che ha colpito la vostra regione. In voi che segni ha lasciato questa tragica esperienza?

«Nessuno di noi è residente nei paesi maggiormente colpiti dal sisma. Ma ognuno di noi ha amici o parenti che hanno subìto danni alle proprie case o ai luoghi di lavoro. È stato un momento davvero scioccante per la nostra comunità e ancora oggi si vedono i segni. La canzone si ispira a un fatto vero che abbiamo visto in un servizio giornalistico televisivo. Protagonista, suo malgrado, una signora anziana che viveva sola in casa. La casa è crollata e lei si è salvata per miracolo. I vigili del fuoco l'hanno portata al sicuro mentre lei continuava a chiedere di essere riportata a casa, senza rendersi conto che casa sua non c’era più. Impossibile non emozionarsi e commuoversi».

È proprio vero che le disgrazie come le emozioni forti fanno scrivere buona musica?

«Se uno ha qualcosa da dire o da raccontare, sicuramente ci mette più impegno e attenzione, ha maggiormente voglia di essere ascoltato e capito. Però non bisogna speculare su alcune cose e sulle disgrazie. Non deve essere quello l'obiettivo. È un concetto di sensibilità alla vita quello che deve trapelare».

A chiudere il disco una gradevole rilettura di "Summertime blues" di Eddie Cochran. Cosa vi ha spinti a scegliere questa canzone?

«È indubbiamente uno dei brani più belli ed emozionanti della storia del rock'n'roll. Probabilmente tutti i grandi l'hanno eseguito almeno una volta nella vita. È una canzone piena di vita ed energia, che in tutte le salse emoziona davvero tanto. Dal vivo la suoniamo spesso ed è solitamente molto apprezzata. Quindi abbiamo deciso di farla nostra anche nel disco».

Qual è la vostra situazione preferita: in studio o live? E perché?

«Credo che senza ombra di dubbio i live siano il nostro habitat naturale. Ci piace suonare dal vivo e vorremmo farlo molto più di quanto già non facciamo. Ci sono posti in cui sappiamo che il pubblico ha un calore estremo. In quei momenti ci esaltiamo e ci permettiamo di improvvisare, suonare finché abbiamo energie in corpo con la consapevolezza di essere artefici di un bellissimo clima di festa. Quelli sono i momenti più belli. In studio è tutto diverso. È sicuramente una situazione dove si deve lavorare per migliorare i brani che si hanno, le proprie capacità, ed è una sorta di cantiere per ottenere canzoni nuove. È divertente ma non mancano a volte, come crediamo sia del tutto normale, momenti di tensione e contrasto fra di noi. Le "pause pizza" aiutano a stemperare sempre il clima».

E adesso quali sono i vostri programmi?

«Noi abbiamo un unico grande obiettivo: quello di esibirci il più possibile e anche al di fuori dei nostri confini regionali. Da pochissimo tempo stiamo collaborando con l'etichetta emiliana New Model Label per la promozione e la distribuzione dell'album in formato digitale. Speriamo quindi di aumentare il nostro bacino di utenze, con la speranza di ottenere più visibilità e incrementare notevolmente il numero dei nostri concerti».



Titolo: Tramps & Thieves
Gruppo: Four Tramps
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(musiche e testi di Simone Montruccoli, eccetto dove diversamente indicato)

01. 22 Crickett (my first rifle)  [Davide Guzzon e Simone Montruccoli]
02. Moonshiner in love
03. Tramps & Thieves
04. The girl of abnormal dreams
05. Last day of freedom  [Simone Montruccoli e Elia Braglia]
06. Tremblin' land blues  [Davide Guzzon e Simone Montruccoli]
07. Mr Jameson (Irish drunken blues)  [Simone Montruccoli e Elia Braglia]
08. Morning spread blues  [Davide Guzzon]
09. Buster blues
10. Revolution tonight
11. Me & the devil #2
12. Summertime blues  [Eddie Cochran]