giovedì 24 settembre 2015

"Amada", l'incontro tra Elva Lutza e Renat Sette





La musica non conosce confini e quando mondi distanti per cultura, tradizione o stile vengono a contatto nascono progetti e dischi tra i più interessanti. In questo ambito si colloca l'album "Amada" del cantante provenzale Renat Sette e del sorprendente duo sardo Elva Lutza, composto da Nico Casu (tromba e voce) e Gianluca Dessì (chitarra e mandola). "Amada" è l'incontro della tradizione sarda con quella provenzale, due culture ancora forti e ben radicate sul territorio, ma anche tra le canzoni popolari e le improvvisazioni jazzistiche, senza però cadere in scelte sofisticate o azzardate. Un'opera che guarda al passato e nello stesso tempo al contemporaneo, un disco che si potrebbe definire fuori dal tempo in cui canti d'amore e religiosi si alternano a serenate e strumentali. Il sapore contemporaneo e moderno è dato anche dai ricami di elettronica di Frantziscu "Arrogalla" Medda che aggiungono colore alle sonorità acustiche del disco. Una scelta che avrebbe potuto essere rischiosa ma il cui frutto è dolce e gustoso.
Per gli appassionati più attenti gli Elva Lutza non sono una sorpresa. L'album eponimo d'esordio era stato salutato da critiche lusinghiere e aveva conquistato il quarto posto al Premio Nazionale Città di Loano per la musica tradizionale italiana. In questo ultimo capitolo Casu e Dessì compiono un importante passo in avanti nell'ottica di rendere moderna la musica tradizionale. Tradizione che ha comunque permeato il percorso artistico dei due musicisti che provengono da esperienze diverse in ambito etno-folk. La voce calda e carismatica del nizzardo Renat Sette, considerato il più importante fra gli esponenti del revival della musica provenzale, regala suggestioni e panorami emozionanti. 
Con Nico Casu e Gianluca Dessì abbiamo parlato di "Amada", disco che sarà presentato al Premio Nazionale Città di Loano 2015.




Come ha fatto la tradizione musicale sarda a incontrare quella provenzale?

Casu: «La tradizione intesa come "passaggio di consegne" di ciò che è prezioso, che ci identifica e che continuerà a farlo nel tempo, oltre il nostro, è un meccanismo approssimativo; la natura delle cose, si sa, è mutevole e questo vale anche per le forme musicali. È giusto associare al significato consueto di trasmissione anche quello meno usato ma pertinente di tradimento ossia di mutamento di ciò che ci è stato consegnato. Accettando questo assunto è possibile aprirsi sia al mutamento degli strumenti e delle strutture che, ovviamente, ad altre tradizioni. Si tratta in sintesi di non accogliere in senso costrittivo le musiche di chi ci ha preceduto. Nel caso specifico Gianluca conosceva Renat da parecchi anni e ci è sembrato che condividessimo la visione di una tradizione "mutante", lui cantante tradizionale e noi provenienti da un ambiente più "popular"».

Quali sono i punti che legano il duo Elva Lutza a Renat Sette?

Dessì: «Esattamente quelli espressi nella risposta alla tua prima domanda; uno sguardo curioso e anche appassionato a ciò che di bello è stato fatto prima di noi; ma uno sguardo dal nostro tempo».

Per "Amada" siete partiti dall'esplorazione dei repertori sacri della Sardegna e della Provenza ma alla fine il disco regala un visione molto più ampia. Quale è stato il comune denominatore che vi ha fatto scegliere le dodici canzoni che compongono il disco?

Casu: «Non abbiamo voluto affrontare un tema specifico dei repertori sardo e provenzale. È un lavoro fondamentalmente musicale. Sai, una volta compreso che da un punto di vista squisitamente sonoro l'impasto regge si tratta poi semplicemente di scegliere i pezzi che rendono la struttura il più gradevole possibile».

Quanto e cosa c'è della musica tradizionale sarda in "Amada" e quanto fa parte del vostro bagaglio personale?

Dessì: «Beh, in questo caso direi che è giusto parlare soprattutto del nostro personale bagaglio musicale… Al contrario del nostro primo disco che è più d'autore, "Amada" è un album, se vuoi, di revival, ma essendo all'80% un disco provenzale abbiamo soprattutto cucito gli arrangiamenti».

Cosa è cambiato nell'approccio musicale degli Elva Lutza tra il disco d'esordio e "Amada"?

Casu: «Non è cambiato il modo di porsi nel valutare un brano. In generale potrei dirti che la mia attenzione si rivolge in modo particolare alla melodia e al testo mentre Gianluca è forse maggiormente stimolato dalle possibilità ritmiche e armoniche che il brano offre. Questo del resto è in relazione con la natura dei nostri rispettivi strumenti».

Cosa è per voi la musica tradizionale?

Casu: «Oltre a quanto detto nel rispondere alla tua prima domanda potrei aggiungere che mi legano al repertorio della musica folk motivi di carattere privato e sentimentale».
Dessì: «Domanda che mi imbarazza e risposta che non può che essere imbarazzata... In Sardegna c'è una grande tradizione musicale, riguardante strumenti come la launeddas o l'organetto, la polifonia, il ballo, la musica sacra... noi siamo davvero in un altro film o in un altro campionato: noi attingiamo, anche, dalla tradizione, sarda e non solo, per fare della musica nostra».

Tromba, mandola e chitarra ma anche le invenzioni elettroniche di Frantziscu "Arrogalla" Medda. Cosa vi ha spinti a inserire questi suoni nel disco?

Casu: «L'idea è stata di Gianluca, io e Renat eravamo un po' timorosi, abbiamo poi accolto la proposta perché siamo un po' dinosauri, certo, ma curiosi. "Arrogalla" ha certamente arricchito il disco con il suo contributo».
Dessì: «Ci sono anche dei brani che non sono finiti nel cd, anche un paio di remix... li tireremo fuori prima o poi».

La Sardegna resta un punto fermo ma ascoltando il disco si capisce che il vostro sguardo è rivolto a tutto il bacino del mediterraneo. Ne è testimonianza, oltre al connubio con Renat Sette, anche la collaborazione con la cantante Ester Formosa che già aveva lavorato con voi nell'album d'esordio…

Dessì: «Nel primo disco abbiamo anche avuto l'onore di ospitare Kaballà che ci ha regalato una bellissima canzone in siciliano. Guarda, sarà anche un luogo comune ma davvero le musiche del repertorio folk dei paesi del mediterraneo offrono un serbatoio illimitato di possibilità. Non metterei comunque limiti definiti; abbiamo duettato con l'irlandese Mick O'Brien grande suonatore di cornamusa e flauti… è stato veramente emozionante».

Con la canzone "Maire nostra" tornate però alla vostra terra e rendete omaggio alla grande Maria Carta. Giusto per ribadire quali sono i vostri punti di riferimento…

Casu: «Sì, questa melodia è una delle tante che Maria Carta ha interpretato in modo magistrale. Mi fa particolarmente piacere suonare questo brano anche perché davvero la voce di Maria Carta è stata un punto di riferimento nella mia ricerca del timbro; per quanto è possibile riferire la voce umana a quella della tromba e sempre poi con i naturali tradimenti».

Con il primo disco avevate conquistato il quarto posto al Premio Nazionale Città di Loano, quest'anno vi siete confermati con un ottimo settimo posto… Ve lo aspettavate oppure si poteva fare di più?

Casu: «Sono molti i progetti e i musicisti interessanti in Italia. È bello fare parte del gruppo».
Dessì: «Oltre al disco di quel grande maestro e amico che è Riccardo Tesi, siamo nel gruppo con il disco dei fratelli Bottasso, un capolavoro, con gli Unavantaluna, che stimiamo moltissimo e con quel geniaccio di Nando Citarella che ha fatto un disco bellissimo. Non potremmo avere migliore compagnia». 

Siete impegnati anche in altri progetti?

Casu: «C'è in piedi un progetto di canti sefarditi e canzoni catalane con Ester Formosa, inoltre un recital in sardo con musiche originali e del repertorio folk con Clara Farina che è probabilmente la migliore rapsoda in Sardegna. Di quest'ultimo lavoro esiste un "live" allegato a un saggio storico sui martiri sardi delle Fosse Ardeatine».
Dessì: «Io sono molto assorbito dal lavoro con i Cordas et Cannas, la più longeva band dell'etno-world sardo, che vanta fra i propri fan più accaniti nientemeno che Peter Gabriel».

Quale futuro ci riserverà Elva Lutza?

Dessì: «Io non darei molto credito ad impegni presi da uomini con il nome di donna all'apparenza straniera e che, oltretutto, non lo è».



Titolo: Amada
Artisti: Renat Sette & Elva Lutza
Anno di pubblicazione: 2014
Etichetta: autoproduzione

Tracce

01. Bèla calha
02. La vièlha
03. Amada gioventude
04. De vent en vent
05. Lo promeirenc principi
06. Loison
07. La filha dau ladrier
08. Maire nòstra
09. La bèla margoton
10. Au pont de mirabèu
11. Bèla viergi coronada
12. A la guèrra



mercoledì 2 settembre 2015

Il Battaglione Batà canta la Resistenza nel fermano





Raccontano storie i ragazzi del Battaglione Batà. Storie che hanno più di settant'anni e che arrivano a noi in musica con l'album "Resistenza e Liberazione nel Fermano". Un disco dalla chiara impronta folk, in cui documenti e testimonianze di chi ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale in prima persona sono raccontate in nove canzoni originali composte da Paolo Scipioni. Si possono ascoltare racconti di episodi significativi della lotta di resistenza in un territorio che è oggi la provincia di Fermo. Gesti straordinari di gente comune che non sono finiti nei libri di storia ma che sono stati altrettanto importanti in momenti drammatici come quelli della Liberazione e della lotta partigiana. Storie di drammi, lotte, paure, sconfitte e vittorie che hanno la faccia del comandante Czellnik o del capo fascista Settimio Roscioli, della staffetta partigiana Mario Cifola e di Ken De Souza in fuga dal campo d'internamento di Monte Urano. Storie che vengono da lontano e che riprendono vita tra atmosfere musicali della tradizione folk fermana, grazie ad armonizzazioni mai scontate e anche all'utilizzo di uno strumento popolare come la fisarmonica. Oltre a Paolo Scipioni (voce e chitarra acustica), del Battaglione Batà fanno parte Andrea Verdecchia (basso acustico), Luca Spaccapaniccia (fisarmonica e cembalo), Lucia Marchioli (viola), Francesca Bracalente (voce).
Paolo Scipioni, nell'intervista che segue, ci ha raccontato cosa è stato e cosa è oggi il Battaglione Batà, tornato a lottare affinché queste storie non vengano dimenticate.




 Cosa era il Battaglione Batà e che significato ha per voi?

«Dopo l'8 settembre 1943, come in tutta Italia, anche nel fermano si formarono le prime organizzazioni resistenti. Il colonnello di stato maggiore Paolo Petroni, proveniente direttamente da Roma, allacciò rapporti con il Comitato di Liberazione Nazionale di Fermo e Macerata nel tentativo di costituire un gruppo partigiano che potesse controllare l'importante via di comunicazione, la Statale 78, che univa l'ascolano, il fermano e il maceratese. Questa strada era strategica in quanto ben nascosta dalle montagne e lontana dalla costa e quindi meno visibile, qui i tedeschi potevano transitare con più tranquillità. Il colonnello Petroni aveva delle conoscenze nella zona dei Monti Sibillini e precisamente nella città di Amandola che potevano permettergli la costituzione di gruppi di resistenza. Quindi in breve tempo, dopo l'ascolano e il maceratese, anche il fermano ebbe la sua formazione partigiana. Il numero delle persone che aderirono aumentò di settimana in settimana fino a superare i duecento uomini. Nacque così il Battaglione Batà, in onore del tenente Mario Batà di Roma che dopo l'armistizio si unì alla resistenza operante nel territorio dell'entroterra maceratese e che nel dicembre del 1943, dopo essere stato catturato dai tedeschi e successivamente processato, venne fucilato nel campo d'internamento di Sforzacosta. Alcuni ragazzi del fermano, già in azione con Mario Batà, decisero così di dedicare a lui questo gruppo partigiano. Che significato ha per noi? Mah, sentire parlare di storie in cui i tedeschi dettavano legge non mi sembra cosa di molti anni fa! È basilare vedere la strada percorsa e rintracciare le congruenze con l'attualità che generano schemi simili».

Perché avete chiamato così la vostra formazione? Vi sentite dei "resistenti"?

«Ci sono due motivi fondamentali. Il primo è perché mi è sempre piaciuto conoscere a fondo la mia terra, la mia città e la sua storia e sapere che da qui sono passati dei ragazzi che avevano più o meno la nostra età e che hanno fatto una scelta ben precisa per un obiettivo comune, lottando per ottenere qualcosa per loro ma sopratutto per chi sarebbe venuto dopo di loro. Tutto questo mi dà uno slancio positivo per affrontare le sfide dei nostri giorni, se nostri li possiamo considerare visto che viviamo all'interno di un meccanismo perfetto per i pochi ma non per tutti. Il secondo motivo è sostanzialmente quello di far conoscere tutto ciò che non è andato a finire sui libri di storia ma che ha contribuito alla Resistenza locale, magari anche in maniera silenziosa. Parlo di storie considerate minori, sconosciute ma ugualmente importanti, la resistenza armata e non armata, la grande solidarietà della nostra terra marchigiana e di tutti i contadini che hanno ospitato a loro rischio e pericolo prigionieri e fuggiaschi, la resistenza di uomini e donne che parlavano il mio stesso dialetto. Ora Fermo ha in qualche maniera ancora il suo Battaglione Batà che racconta tutto quello che è stato fatto per la libertà in questa odierna apparente calma che si può notare dall'altra parte della finestra. L'arma più appropriata ora ci è sembrata essere la musica. Siamo chiamati ad essere i partigiani del 2000, a resistere e combattere logiche politiche ed economiche che per certi versi mettono al tappeto più di quanto possa fare un colpo di fucile. Ti uccidono l'anima lasciandoti in piedi. Tutto questo ovviamente avrebbe non molto senso se non ci interessassimo di quello che succede oggi. Diciamo che questo progetto ci ha dato un "la storico" per partire alla volta del presente».

Chi sono i partigiani oggi?

«Già trovare una parte certa oggi sembra complicato, c'è molta confusione, non ci sono più forse neanche le parti, è un'unica grande associazione dove però da socio non hai neanche voce in capitolo, cioè devi contribuire e basta. Credo sia rimasto identico il motivo che può ricondurre oggi ad essere identificato come un partigiano e cioè la ricerca della libertà. Siamo tutti noi, uniti, a volere quello che normalmente ci spetta, che altro non è che avere una possibilità».

Siete un gruppo musicale giovane, perché avete puntato gli occhi sulla storia di settant'anni fa?

«Credo, purtroppo, che si stia già perdendo il valore della Resistenza, ad appena settant'anni dalla Liberazione. Non ci sono oramai più i partigiani per ovvi motivi anagrafici e con loro, testimoni diretti di certi orrori, di un'occupazione, di un'oppressione e della mancanza della libertà, sembra stia andando in pensione oltre alla memoria di quegli anni anche un certo modo di pensare, di ragionare intorno ai problemi che sono di tutti, della maggior parte delle persone. Viviamo in un mondo, quello attuale, che è braccato da innumerevoli crisi, oltre che economiche e lavorative, anche di valori quali la solidarietà, la condivisione con l'altro, qualsiasi esso sia. Tutto questo toglie il fiato se non addirittura, in certi drammatici casi, la voglia di continuare a lottare, ci isola, rimani solo contro certi palazzi. Ora avremmo bisogno più che mai di tanti Battaglioni Batà per dare un porto sicuro alle nostre esistenze, per avere un fatto motivazionale che muove e smuove le nostre coscienze e possa far gridare quello che attualmente ogni giorno toglie la speranza di un domani: la mancanza di un lavoro e la possibilità di progettare la propria vita. D'altronde credo proprio che non ci sia futuro senza memoria».

Cosa vi ha spinti a cantare i protagonisti della Liberazione di Fermo dai nazi-fascisti?

«Un giorno di circa dieci anni fa mi trovavo in Toscana a casa di amici e si stava parlando della Resistenza del casentino e di tutta la Val di Chiana, di quante storie quel territorio portava con sé. Tornando a casa pensai che storie del genere erano racchiuse da qualche parte anche in questa terra. Tutto questo mi incuriosì e appassionò. Iniziò così la ricerca di storie simili anche lungo tutta la valle del Tenna, dell'Aso e dell'Ete».

Quali sono state le fonti che vi hanno trasmesso queste storie?

«In quel periodo, collaboravo con un'associazione culturale folklorica che si chiama "Mazzamurelli de li Sibillini". Stavamo raccogliendo delle informazioni a casa di molti contadini della zona per uno spettacolo che avevamo in mente sulle tradizioni popolari e sul saltarello che è il ballo tipico per eccellenza del nostro territorio; molti dei nostri incontri andavano a finire inevitabilmente sul tema della guerra. Da lì ho raccolto molte di queste storie, altre le porto in eredità dai racconti dei nonni e altre ancora le ho conosciute grazie all'ANPI provinciale di Fermo e all'Istituto di Storia per il Movimento di Liberazione di Fermo. Un grazie speciale va a Peppino Buondonno, assessore alla cultura della Provincia di Fermo nel periodo in cui è nato questo progetto, che è riuscito nel tempo a mettere a disposizione della collettività, con particolare attenzione ai giovani, spazi molto importanti quali l'Istituto di Storia per il Movimento di Liberazione o come l'aula multimediale e il museo della Casa della Memoria di Servigliano che si trova nell'ex campo dei prigionieri di guerra. Ringrazio anche Carlo Bronzi, presidente dell'ANPI di Fermo per l'aiuto e la collaborazione che dura tutt'ora. Tutto questo mi ha permesso di leggere, scoprire e conoscere queste storie e di ritrovarne alcune di quelle sentite dai contadini, all'interno di libri, documenti e relazioni del tempo».

C'è qualche storia che ti ha colpito maggiormente?

«Oltre alle canzoni già incise che sono entrate a far parte del disco, ce ne sono altre che per vari motivi sono rimaste fuori o perché sono nate in un periodo successivo rispetto a quello della pubblicazione dell'album e che magari entreranno in qualche altro progetto, io ovviamente le porto tutte nel cuore. Forse "Canzone di Santa Caterina" che è nata dalla storia che mi ha raccontato mia nonna e che l'ha vista protagonista in prima persona, genera in me, nel suonarla, un'emozione diversa, anche perché sono cresciuto e abito ancora nella casa teatro di quella vicenda. Tolto l'elemento "genetico" tutte le altre sono di pari importanza per me».

Che insegnamento hai tratto da questa esperienza discografica?

«Alcune volte le canzoni non rimangono nel cassetto o chiuse tra le quattro mura della tua stanza. Grazie ad Antonio Ciccotelli e alle Edizioni Musicali e Discografiche Not.A.Mi abbiamo avuto la possibilità di far conoscere queste canzoni a più persone incidendole in un disco. È stato un buon cammino vedere questi brani con il loro vestito finale passare tra prove serali dopo il lavoro fino a notte inoltrata, ad arrangiamenti sempre più convincenti, cercando di rimanere con quel suono "resistente", con strumenti e timbriche suonate, in alcuni casi, anche dai partigiani».

Qual è lo scopo di questo disco?

«Lo scopo principale è quello d'informare su ciò che rischia di scomparire e non tornare più. Storie di gente comune che ha compiuto grandi cose che non sono andate sotto i riflettori della storia ma che hanno contribuito al fine comune e unitario. I destinatari sono ovviamente le giovani generazioni, i ragazzi delle scuole medie e superiori, anche se devo dire che ci sono molti bimbi che canticchiano già questi brani, il che mi fa pensare che se avessi chiamato Cristina D'Avena forse sarebbe stato tutto un altro successo... scherzi a parte! I ragazzi devono essere a conoscenza di alcuni capitoli della nostra storia molto importanti, alcuni dei quali hanno suggerito e generato la nostra Costituzione, mentre i grandi di certi capitoli già ne sono a conoscenza o per lo meno dovrebbero esserlo. Con molto piacere ho visto che all'esame di stato di quest'anno erano presenti in più tracce il tema della Resistenza, ecco diciamo che questo è il filone e lo scopo sostanziale del disco. Non a caso la copertina dell'album mostra una bimba davanti alla staccionata dove alcuni partigiani del Battaglione Batà sono stati fucilati circa settant'anni prima della sua nascita... è un tenere il filo da non perdere».

Le storie raccolte sul campo le hai musicate dando origine a nove canzoni originali. Come sono nati i brani del disco?

«Parte tutto dalle singole storie di eccidi, battaglie e gesta. Se si guarda bene tutto qui ci parla di questo: le piazze di alcuni paesi, le vie di alcune città, le scuole intitolate, i giardinetti pubblici che portano determinati nomi. Ci sono alcune vie di Fermo che portano dei nomi di persone apparentemente sconosciute. La curiosità di dare una storia a quei nomi, di sapere quale vita aveva dato il nome a tanti indirizzi mi appassionò molto, questo unito a tutto quello detto precedentemente mosse a favore di questi brani. Fermo è anche la terra di personaggi importanti legati in qualche modo alla Resistenza, all'arte, alla letterature e non solo, nomi come: Joyce Lussu, Osvaldo Licini, Ada Natali, Mario Dondero e tanti altri ancora. Era doveroso e quasi impossibile non farlo».

Quando hai adattato i racconti alle canzoni hai mai pensato al presente? Non hai mai immaginato di collocare al giorno d'oggi il comandante Czellnik o il capo fascista Settimio Roscioli?

«Come dicevo prima, se non lo leghiamo al presente questo progetto rimane solamente un documento storico. Deve, invece, farci riflettere sui drammi che viviamo oggi e sui legami sottili con il passato. Di esempi come Roscioli purtroppo ce ne sono abbastanza, di personaggi come il comandante Czellnik invece un po' meno e sicuramente si trovano in qualche parte sperduta del mondo. Il signor Czellnik, tra l'altro, il prossimo ottobre compirà cent'anni e vive ancora a Fermo, diciamo che abbiamo ancora molto da imparare, lui ci guiderà ancora una volta».

Come è stato accolto questo disco a Fermo?

«È stato accolto con stupore ed interesse, sopratutto dai giovani. Abbiamo avuto la possibilità di suonare alcuni brani durante uno degli appuntamenti promossi dalla Provincia e dedicati alla Costituzione, a cui hanno partecipato gli alunni dell'ultimo anno delle scuole superiori di Fermo che hanno espresso molto interesse in questo tipo di riscoperta. Anche durante le serate dal vivo c'è molta attenzione».

Come si evolve dal vivo questo disco?

«Oltre alle nostre canzoni, cantiamo brani popolari, canzoni che hanno fatto la Resistenza, nel vero senso della parola, sfidando il tempo e gli uomini. Proponiamo anche alcuni interventi e qualche testimonianza. Durante le serate trasmettiamo filmati che raccontano storie di prigionieri all'interno dei due campi di internamento che si trovavano da queste parti».

Per ultimo mi piacerebbe che ci presentassi i tuoi compagni di viaggio?

«Al basso c'è Andrea Verdecchia che è un mio vecchio amico, ci conosciamo praticamente da una vita, è stato anche coautore di due brani. Alla fisarmonica c'è il Maestro Luca Spaccapaniccia, un ragazzo eccezionale sotto ogni punto di vista, dalla musica al lavoro, è davvero un piacere suonare con lui. Ha curato quasi tutti gli arrangiamenti delle canzoni. Alla viola suona una giovanissima ragazza, Lucia Marchioli, molto preparata in campo musicale, studia al conservatorio di Fermo ed è di sicuro avvenire. La voce femminile del gruppo è quella di Francesca Bracalente, anch'essa giovane e preparata, all'occorrenza suona anche il violino. I suoni dal vivo sono curati da Matteo Bronzi, un giovane fonico fermano già di grande esperienza e bravura. Da parte mia e nell'intento del progetto, trovare giovani musicisti e collaboratori così preparati a portare la Resistenza nelle piazze, credo proprio che non avrei potuto chiedere di meglio. Tutte le foto del disco e delle serate sono a cura di Stefano Properzi che ha impreziosito il nostro lavoro. Siamo andati insieme sui luoghi della Resistenza». 



Titolo: Resistenza e Liberazione nel Fermano
Gruppo: Battaglione Batà
Anno di pubblicazione: 2015
Etichetta: Notami Folk/IRD

Tracce (musiche e testi di Paolo Scipioni)

01. Il comandante Czellnik
02. Da un po'
03. Il cavaliere nero
04. La radio che libera
05. Canzone di Santa Caterina
06. Partigianello
07. Se eri lì
08. Battaglione Batà
09. Fuga da Fermo