martedì 29 marzo 2016

Per Giancarlo Frigieri non è mai "Troppo tardi"




La sconfitta come accettazione dei propri limiti ma soprattutto come nuova possibilità, come occasione per ripartire e per imboccare strade inesplorate. È questo in filo conduttore che lega le otto canzoni di "Troppo tardi", nuovo album di Giancarlo Frigieri. Armato di chitarra e voce il cantautore di Sassuolo, al suo settimo capitolo discografico in poco meno di dieci anni di carriera solista (è stato per alcuni anni batterista dei Julie's Haircut), ha lasciato da parte lo stereotipo classico del cantautore e ha esplorato soluzioni sonore inconsuete. Basta ascoltare la canzone "Motivi familiari" in cui la sezione ritmica è affidata all'espressione ‹ti amo› in lingua finlandese mandata in loop, oppure il brano "Il chiodo" in cui Frigieri simula il tocco delle spazzole sulla batteria sussurrando ‹zitti tutti›, o ancora "Elicotteri e cani" in cui respiri e feedback di chitarra regalano un effetto percussivo. Anche le chitarre non sono usate in modo convenzionale e un esempio è il brano "Fiori" in cui l'assolo è creato unendo frammenti di melodie di autori classici del Novecento oppure la canzone "Galleria" che parte pagando un debito ai Primal Scream e termina quasi fosse uno spot pubblicitario. Tante piccole soluzioni che rendono il disco intrigante e piacevole. Notevole il lavoro che Frigieri ha fatto sui testi in cui sembra emergere quasi una auto-analisi che esorcizza una vita fatta di inciampi e ripartenze, in un susseguirsi di stagioni che passano e non ritorneranno. Testi che non per questo gettano una luce malinconica sulle canzoni ma sono semplicemente l'accettazione di una condizione umana a cui tutti dobbiamo adeguarci e che non può essere cambiata o stravolta. 
Nell'intervista che segue Giancarlo Frigieri ha parlato del suo nuovo album.



Giancarlo, è "Troppo tardi" per cosa?

«Per tornare indietro. È sempre troppo tardi. Bisogna vivere il proprio presente».

In questo album canti dell'accettazione delle sconfitte e della possibilità di ripartire. La società attuale pensi che dia l'opportunità di rimettersi in carreggiata dopo una falsa partenza?

«La possibilità di ripartire c'è sempre. Ogni sconfitta è una deviazione ed è proprio per questo che può aprire ad un percorso nuovo».

Hai vissuto sulla tua pelle quello che canti?

«A volte sì, a volte no. Molto spesso no».

Questo è il tuo settimo album a tuo nome. Penso che le velleità di sbancare il banco con la musica tu le abbia ormai archiviate, eppure continui a proporre lavori di grande qualità. Cosa ti spinge e ti stimola ad andare avanti?

«Non riesco a fermarmi. Scrivo canzoni da quando avevo nove anni, è una cosa che faccio in continuazione e non saprei proprio smettere. Magari in futuro non saranno canzoni ma musica strumentale, non so. Inoltre credo di essere bravo, soprattutto dal vivo».

In "Elicotteri e cani" canti: ‹Hai messo i sogni dentro ad un cassetto ed hai creduto ai racconti di chi ti ha detto che non meritiamo niente e non può andare meglio di così›. Ci commenti questa frase…

«Ne "Il chiodo" dico: ‹Quelli a cui piace stare dalla parte dei perdenti faranno sì che tu non vinca mai›. Più o meno è la stessa cosa».

Mi sembra di percepire anche una critica alla società di oggi fatta di apparenza, di una ricerca del consenso altrui, di una omologazione massiccia e invasiva. È così o mi sbaglio?

«Quando si fanno canzoni credo che la ricerca del consenso non sia necessariamente una cosa cattiva. Giuseppe Verdi scriveva a Boito, il suo librettista, che: ‹Bisogna guardar losco e fare un occhio al pubblico e un occhio all'arte›. Personalmente mi ritrovo perfettamente in questo. Credo che la maggior parte dei sedicenti alternativi non realizzi canzoni che si lasciano ascoltare principalmente perché non ne è capace».

Nel disco hai fatto quasi tutto da solo: hai cantato e hai suonato le chitarre. Hai un così brutto carattere da non volere nessuno al tuo fianco oppure pensi che un altro musicista possa condizionare le tue idee?

«È la prima volta che suono proprio tutto da solo. Ho deciso così e basta. Prima di ogni disco penso alle cose che mi impongo di non fare e poi devo rispettare questa regola, trovo che il limitare le proprie risorse sia una cosa che agevola la creatività. In genere, almeno in studio, ho qualche collaboratore e sono piuttosto aperto a idee esterne. Non sono mai presente ai missaggi, per dire. Mi limito ad alcune indicazioni di base e poi lascio fare. Chi partecipa al disco deve poter esprimere le proprie risorse».

Perché la scelta di una copertina anonima: una macchia di colore blu, senza titolo e senza il tuo nome?

«Lo avevo già fatto con il mio primo album in inglese. Tornassi indietro, almeno i titoli dei brani dietro li metterei, perché poi quando il pubblico li sente dal vivo, va a cercare sui dischi il pezzo che gli è piaciuto e questo agevola la vendita del supporto. Un occhio al pubblico e uno all'arte, vedi? Questa volta quello al pubblico è rimasto chiuso. È stato un errore, ma non si può rimediare. È troppo tardi, appunto».

Con il tuo precedente lavoro, "Distacco" del 2014, sei finito tra i candidato alle Targhe Tenco. Con "Troppo tardi" a cosa aspiri?

«A niente. Che è quello che ho sempre ottenuto fino ad oggi. Niente di niente di niente. Finire tra le Targhe Tenco non serve a niente, finire con le belle recensioni sui giornali non serve a niente, quantomeno non ti dà quello "spazio di incidenza", per dirla con Gaber e Luporini, per cambiare un bel niente dell'ambiente che ti circonda. Non ho aspirazioni di carriera, mi limito a suonare dal vivo e a registrare le mie canzoni. Se invece parliamo del risultato puramente artistico, non ricordo quale compositore disse che la musica sarebbe stata un ibrido tra canzone acustica e parti elettroniche e che avremmo avuto delle opere capaci di coniugare immediatezza e profondità. Da questo punto di vista spero che questo album si possa ascoltare anche tra centocinquant'anni con la stessa freschezza con la quale lo si può ascoltare adesso, anche se mi rendo conto che è solo un messaggio in bottiglia nell'oceano. Però è tutto quel che posso fare».

Little Steven, il chitarrista di Bruce Springsteen, in una recente intervista ha dichiarato: ‹Non faccio fatica ad ammettere che è stato un privilegio e un grande insegnamento venir su nell'unico periodo della storia (gli anni Sessanta e parte dei Settanta) in cui la musica migliore era anche la più commerciale, quella che dominava nei cuori della gente e anche nelle classifiche›. Cosa te ne pare?

«Ogni epoca ha la sua musica e la sua maniera di produrla e ascoltarla. Little Steven è stato fortunato a riuscire a farne un mestiere senza snaturare il proprio gusto. Sul fatto che fosse la musica migliore un sacco di gente non sarebbe d'accordo».

Oltre alla tua carriera solista porti avanti il progetto K. Butler & The Judas. Ce ne parli?

«Facciamo delle cover di Dylan, le facciamo ogni volta in maniera diversa, non facciamo praticamente mai le prove e improvvisiamo molto. Siamo dylaniani nello spirito, non nella calligrafia ed è una cosa che si può permettere solo chi ha grandi musicisti nella band, come abbiamo noi. I grandi musicisti ovviamente sono Antonio Righetti, Lele Borghi e Gianni Campovecchi. Io sono l'imbroglione di turno, che però riesce a farla franca».

È da poco finito il Festival di Sanremo. Ti interessa? Ti sarebbe piaciuto essere su quel palco?

«Certo che mi piacerebbe essere a Sanremo. Il motivo è semplice. È un'opportunità per fare dischi e concerti che vengano considerati. Ricordo una data di Max Gazzè al Kalinka di Carpi nel periodo de "La favola di Adamo ed Eva" davanti a venticinque persone. Due mesi dopo era a Sanremo, ha aggiunto un pezzo al disco e lo ha ripubblicato. Tempo un mese ancora e ha riempito i teatri. Sanremo è la manifestazione più vista, soprattutto dal pubblico cosiddetto "indipendente"».

Dove ti possiamo trovare?

«Su www.miomarito.it ci sono le date. Venite a sentirmi dal vivo. È l'unica arma che ho».


Titolo: Troppo tardi
Artista: Giancarlo Frigieri
Etichetta: New Model Label
Anno di pubblicazione: 2015

Tracce
(testi e musiche di Giancarlo Frigieri)

01. Nakamura
02. Galleria
03. Nel mondo che faremo
04. Elicotteri e cani
05. Il limite
06. Motivi familiari
07. Fiori
08. Il chiodo



venerdì 11 marzo 2016

Giorgia del Mese vive emozioni post-ideologiche





A distanza di due anni e mezzo dall'ottimo "Di cosa parliamo", la cantautrice campana Giorgia del Mese torna con "Nuove emozioni post-ideologiche", terzo album della sua carriera, in uscita l'11 aprile sotto etichetta Radici Music. Un disco potente, graffiante, incisivo che esalta le capacità di scrittura di questa artista tra le più interessanti del panorama italiano. Le atmosfere post-rock ed electropop si legano a suggestioni noise in un vortice sonoro a cui il produttore Andrea Franchi, già a fianco di Marco Parente e Paolo Benvegnù, dà spazialità e vigore. Dalle narrazioni a tratti ruvide, senza filtri, dirette, emerge l'urgenza di raccontare e descrivere le dinamiche del mondo, della società e dei rapporti personali osservandoli da un prospettiva diversa, per certi versi alternativa. Si parte dall'insofferenza di "Nuova visione" fino ad arrivare a "Caro umanesimo", poco più di due minuti di rabbia e accuse per quello che sta accadendo a migliaia di persone in fuga attraverso il Mediterraneo. E si riparte con l'inquietudine di "Fuoco tutto" per arrivare ad un finale strumentale noise che evoca la partenza verso lo spazio della navicella da cui la del Mese ha osservato il mondo in questo nuovo capitolo della sua storia artistica. Ad accompagnare il viaggio ci sono gli alberi della copertina che come tante mani stilizzate indicano un centro di gravità non ancora raggiunto.  
Come già successo nel disco precedente, Giorgia del Mese ha voluto al suo fianco alcuni amici in questa nuova avventura: Andrea Mirò, che dà il suo contributo su "Bello trovarti", l'istrionico Peppe Voltarelli, che dà vita ad un riuscito ed emozionante duetto su "Soltanto tu", Francesco Di Bella, che canta insieme alla del Mese nell'unica cover del disco, "Lacreme" dei 24 Grana.   
"Nuove emozioni post-ideologiche" è uno dei dischi più belli e coinvolgenti degli ultimi mesi. Giorgia del Mese mette sul piatto canzoni che hanno spessore e dignità di esistere e che meritano di essere ascoltate ed apprezzate. Un disco che rappresenta un punto di riferimento per la nuova scena italiana e con Giorgia abbiamo approfondito il discorso nell'intervista che segue. 




Giorgia, da dove arrivano le canzoni del tuo nuovo album intitolato "Nuove emozioni post-ideologiche"?

«Le canzoni di questo album sono state pensate in un anno di considerazioni, di aggiustamenti di vita e di assunzioni di nuove postazioni da cui osservare in modo partecipato. Direi che è un disco di pessimismo esistenziale ma orientato ad un ottimismo antropologico».

Sei sicura che stiamo vivendo in una epoca post-ideologica? Io temo che le ideologie non siano morte ma abbiano solo cambiato forma…

«Il "post ideologico" fa riferimento ad una nuova ideologia dominante almeno in occidente e in particolare nel nostro paese, dove annacquare e imborghesire gli obiettivi e le aspettative è diventato la normalità, dove le ideologie e le conquiste dei partiti comunisti e delle lotte degli anni precedenti vengono squalificate per dare cittadinanza al "meno peggio", al "siamo tutti nella stessa crisi", uccidendo una coscienza di classe e ricacciandoci indietro. Un disastro».

Quale "Nuova visione" auspichi?

«"Nuova visione" è in realtà una provocazione e non una proposta. È la rassegnazione di vivere sperando che non arrivi il peggio, abdicando a sogni e prospettive, abbracciando quello che ci ha invece ucciso: la politica statalista reazionaria e l'antipolitica razzista e egoista».

Giorgia del Mese. Genova, 31 maggio 2015 (copyright)
Hai arricchito questo tuo terzo lavoro con un alcuni ospiti. A partire da Andrea Mirò che ha dato il suo contributo in "Bello trovarti". Come vi siete incontrate?

«Con Andrea Mirò è stato un bellissimo incontro. È una persona appassionata, curiosa, generosa e una grande artista. L'ho incontrata varie volte in festival dove abbiamo condiviso il palco e un giorno le ho dato il mio disco. Dopo qualche mese mi ha scritto dicendo: ‹cazzo, non immaginavo fossi così forte›».

A impreziosire "Soltanto tu" c'è l'istrionico Peppe Voltarelli. Come si è svolta la session in studio?

«Con Peppe Voltarelli c'è una amicizia che è nata al Premio Tenco 2011. Viviamo entrambi a Firenze e questo ci ha permesso di coltivare le nostre affinità artistiche e umane, è una delle persone con cui mi sono sempre sentita a mio agio nonostante la sua statura artistica. Inoltre è un compagno e questo ci unisce molto. La sessione in studio è stata in primo luogo divertente e spensierata, e questo è una rarità quando si registra un disco, tutto merito di Peppe...».

Unica cover del disco è "Lacreme" dei 24 Grana con Francesco Di Bella che duetta con te. Perché hai scelto questa canzone?

«Era da tempo che volevo cantare un brano in napoletano visto che sono originaria di Salerno, ma sono restia a scrivere in lingua. Con Francesco Di Bella c'è un affetto profondo e ritengo che lui sia uno degli autori più sensibili in circolazione. "Lacreme" è un brano che avrei tanto voluto scrivere io…».

"Caro umanesimo" è una bordata esplosiva e rabbiosa contro la società di oggi con le sue storture, ipocrisie, sofferenze ed egoismi. Poco più di due minuti di rabbia…

«"Caro umanesimo" è un grido di rabbia e impotenza rispetto a quello che succede a centinaia di migliaia di fratelli e sorelle che cercano una vita migliore in occidente e noi, non abbiamo saputo salvare, accogliere, proteggere».

In "Strana abitudine" mi piacerebbe che mi commentassi il verso «...questa strana abitudine di morire senza protestare». Mi è venuta in menta la società italiana di oggi che è talmente distratta che non scende in piazza neppure per salvare la sanità pubblica…
Genova, 31 maggio 2015 (copyright)

«Hai colto molto bene quello che cerco di raccontare in "Strana abitudine", questa condizione esistenziale di resistenza, di cupezza, una area "depressogena" che assumiamo come normale, ma non lo è, eppure qualcosa esplode, qualcosa riemerge e si ribella. Spero!»

Si cambia decisamene tono con "La cosa da dire", in cui canti accompagnata da una chitarra acustica. Poco meno di un minuto e mezzo per dire cosa?

«"La cosa da dire" è un saluto ad un amico che se ne è andato, a cui è dedicato l'intero disco, per dirgli e dirci scusa, ma con vigore e prospettiva, perché tradiamo tutto ma tutto resta ancora da onorare».

Mi piace molto anche la copertina. Io però al posto degli alberi vedo tante braccia teste che invocano pace…

«La copertina è opera dell'artista Simone Vassallo. Abbiamo voluto creare una foresta intricata, oscura, ma vista dal basso forse si può conoscere meglio e fa meno paura».

Perché hai deciso di chiudere il disco con un brano strumentale, a tratti noise, in cui tastiere, chitarre e batteria elettronica si rincorrono nello spazio quasi fosse una corsa verso quel centro a cui puntano gli alberi della copertina?

«Il disco si chiude con un brano strumentale noise, perché questa è l'intera cifra del disco: un lavoro rumoroso, elettrico, imperioso, in cui non c'è spazio per la commozione».

A produrre e a curare l'arrangiamento è ancora una volta Andrea Franchi, un sodalizio artistico ormai consolidato il vostro. Quanto è importante la presenza di un produttore e cosa ha apportato al tuo disco?

«Il produttore artistico nei miei lavori è una figura determinante, è colui che sa tradurre le intenzioni e le intuizioni della scrittura e farle viaggiare con una nuova vita. Andrea Franchi è un super produttore perché ha la rara capacità di mettere il suo grande talento al servizio di un autore rispettando e interpretando l'identità di chi produce».

Concludendo, come sarà "Nuove emozioni post-ideologiche" dal vivo?

«Il tour 2016 sarà una sorpresa per chi ha seguito i miei live precedenti. Saremo in duo con Andrea Franchi in un set elettro-pop, come questo disco vuole».


Titolo: Nuove emozioni post-ideologiche
Artista: Giorgia del Mese
Produttore: Andrea Franchi
Etichetta: Radici Music
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Giorgia del Mese, eccetto dove diversamente indicato)

01. Nuova visione
02. Bello trovarti
03. Caro umanesimo
04. Soltanto tu
05. Fuoco tutto
06. Lacreme  [24 Grana]
07. Strana abitudine
08. Senza più scuse
09. Tutto a posto
10. La cosa da dire
11. _



martedì 1 marzo 2016

"Storie della fine di un'estate" di Carlo Ozzella





I colori e i sapori dei mesi estivi, i sogni e i tanti volti dell'amore, della libertà e dell'amicizia fanno capolino nel nuovo album di Carlo Ozzella. "Storie della fine di un'estate", pubblicato a due anni e mezzo di distanza dal precedente "Il lato sbagliato della strada", segna un deciso passo in avanti nella crescita artistica del cantautore milanese. Abbandonati, almeno per il momento, i Barbablues, compagni di viaggio per oltre quindici anni e protagonisti di centinaia di concerti nei locali del nord Italia, e affrancatosi dalle influenze, a volte troppo marcate, della produzione di Bruce Springsteen, Ozzella ha dato vita ad un disco di sano rock influenzato dalla tradizione americana così come dalla canzone d'autore italiana. Musicalmente Ozzella ha scelto di utilizzare molto meno il sax, strumento tra i più importanti del disco precedente, e di lasciare poco spazio agli assolo, tutto ciò a vantaggio di un suono più compatto e moderno. È cambiato anche il punto di osservazione da cui Ozzella guarda il mondo. Gli aspetti sociali, tanto importanti nelle canzoni de "Il lato sbagliato della strada", hanno lasciato il posto ad una visione più intima e personale in cui gli stati d'animo, le emozioni e le esperienze di vita sono diventate protagoniste nelle undici tracce autografe. Per raccontarsi Ozzella ha lasciato da parte la lingua inglese, utilizzata in alcune delle canzoni del primo disco, e ha scelto di cantare tutti i brani in italiano. Scelta ampiamente condivisa da chi scrive e che ha donato maggiore omogeneità all'album.
Arricchisce il cd la canzone "Quando il cielo è fragile", scritta da Lorenzo Semprini e pubblicata una decina di anni fa in inglese nel disco dei Miami & The Groovers. Il brano è stato poi tradotto da Daniele Tenca e quella pubblicata da Ozzella è la prima versione ufficiale in italiano. "Storie della fine di un'estate" è un disco brillante, coerente e generoso che scorre fluido senza momenti di stanca o cali di tensione e che conferma l'ottima vena creativa di Ozzella.
In studio di registrazione il cantautore milanese si è avvalso della collaborazione di Claudio Lauria al sax, di Davide Malanchin alla batteria e alle percussioni, di Martino Pellegrini al violino, di Paolo Quaglino alle chitarre, di Riccardo Maccabruni all'Hammond e alla fisarmonica, di Roberto Cito al basso e di Stefano Gilardoni al pianoforte e al mandolino.
A raccontarci la genesi di "Storie della fine di un'estate" è Carlo Ozzella nell'intervista che segue. 




Carlo, è sempre un piacere poter chiacchierare con te. Cosa è successo nella tua vita dall'ultima volta che ci siamo bevuti una birra insieme?

«Tantissimi concerti, molti nuovi amici che seguono la mia musica, una bimba che cresce, un'altra in arrivo fra pochi mesi… e un nuovo album!».

Presentaci "Storie della fine di un'estate", il tuo nuovo disco uscito in questi giorni…

«Dodici brani, tutti in italiano, rock d'autore. È un disco in cui si incontrano le sonorità tipiche del rock americano classico, del folk rock più moderno e della canzone d'autore italiana, in cui la cura dei testi ha una grande importanza. Le canzoni raccontano pezzi di vita, ricordi, sogni, l'amore con i suoi tanti volti, l'amicizia. Dopo il precedente album, in cui mi ero soffermato maggiormente su tematiche sociali, sulla crisi che stavamo attraversando, volevo che questo lavoro contenesse storie molto più personali, storie reali, in cui ognuno si potesse identificare».

Rispetto al precedente disco, questo non è più firmato insieme ai Barbablues. È cambiato qualcosa?

«Ero convinto che questo disco dovesse rappresentare una svolta per me. Volevo che suonasse alla grande, che contenesse idee nuove da un punto di vista musicale, che venisse registrato in maniera assolutamente professionale. I Barbablues sono nati come "party band", hanno fatto questo per quindici anni e ancora lo fanno in maniera eccezionale! Ma suonare delle cover e animare una serata è una cosa diversa rispetto a produrre un disco. Insieme ci siamo resi conto che era bene separare queste due realtà, che per inseguire l'idea che avevo in testa era necessario affidarsi a nuovi musicisti, ad un produttore artistico. E poi portare avanti un progetto solista, in cui potesse emergere la figura di un cantautore con le sue storie da raccontare».

Da dove arrivano le canzoni di questo disco?

«Subito dopo l'uscita del precedente lavoro per un anno circa non ho scritto praticamente niente. Poi gradualmente una serie di nuove canzoni hanno iniziato a venire alla luce, prima le musiche, poi le idee sui testi, poi versi sempre più affinati. In alcuni casi si è trattato di un'esigenza espressiva immediata, emozioni che non sapevo elaborare se non facendole confluire in una canzone, in altri di lunghe riflessioni, su cosa volevo raccontare e in che modo. Mi piaceva in generale l'idea che alla fine ne risultasse un compendio di differenti storie ed esperienze».

C'è un filo conduttore che lega le storie che canti in questa tua nuova fatica discografica?

«La prima volta in cui ho ascoltato l'album finito mi sono accorto che c'è un termine che ricorre spesso nelle canzoni: "libertà". Credo che questo tema attraversi in maniera trasversale tutto il disco, anche da un punto di vista musicale».

Nei testi mostri un carattere molto determinato. In più di una occasione inviti a vivere totalmente la vita, a rinascere senza dover fingere. È questo il modo in cui vorresti vivere?

«Mi rendo conto sempre di più come spesso ci troviamo a condurre vite in cui scegliamo solo in parte cosa vogliamo davvero. Per il resto è una grande finzione, abbiamo la nostra parte e dobbiamo recitarla. La cosa sorprendente è che se ci pensi bene nessuno ci costringe a farlo! Eppure per uscire dagli schemi ci vuole molto coraggio e io per primo non sempre sento di averlo».

È applicabile questa visione alla società di oggi?

«Sono convinto che sia possibile fare dei primi passi, partire dalle piccole cose e in quelle riaffermare le proprie scelte, non condizionate. Chiedersi se quello che si sta facendo ci piace davvero, ci rende felici, e se non è così intraprendere un nuovo cammino».

Musicalmente gli interventi di sax, molto presenti nel tuo primo disco, sono più ridotti a vantaggio di violino e tastiere. Un cambio di rotta?

«In parte sì. Volevo allargare le mie possibilità espressive, usare sonorità più variegate e soprattutto fare un disco che suonasse attuale, moderno. Il sax è uno strumento magnifico e Claudio (Lauria, ndr) in particolare è un musicista di grande qualità, ma ricorrere sempre al sax come strumento solista rischiava di portarci un po' indietro negli anni, a sonorità che oggi sono un po' superate. Le stesse strutture delle canzoni sono state pensate in questo senso, in generale ci sono pochi assolo e i pezzi scorrono via molto più compatti».

Trovo che le canzoni suonino meno "springsteeniane" rispetto a quelle del primo disco. Personalmente ritengo che sia segno di maggiore maturità artistica. Tu cosa ne dici, sei cosciente di tutto ciò?

«Per me è stato un percorso di crescita abbastanza naturale. Un amico giornalista, Daniele Benvenuti, nella sua recensione a "Il lato sbagliato della strada" lo aveva definito come l'album "più sonoramente springsteeniano" che lui avesse ascoltato negli ultimi venticinque anni. Il che naturalmente mi aveva fatto piacere, è da quel mondo che venivo e in qualche modo a quel sound mi ero ispirato. Ma restare in quel solco conteneva una grande insidia, quella di non esprimere affatto una propria identità, che è l'esatto contrario di ciò che significa essere un artista».

Rock ma anche aperture verso certe sonorità irlandesi come in "Ti bacio per tutta la vita"…

«Avevo in mente alcuni strumenti che senz'altro avrei voluto utilizzare, come il violino, la fisarmonica, per dare al disco sfumature folk. Volevo sentire nelle canzoni il legno degli strumenti, delle chitarre acustiche, del mandolino, percepire le loro vibrazioni. In questo disco tutti gli strumenti che si sentono sono reali, nulla di campionato o di replicato. Per l'Irlanda poi ho un amore profondo e non vedo l'ora di ritornarci. Adoro i suoni e le atmosfere della sua musica tradizionale, la sua storia e la sua mitologia, i suoi paesaggi».

Vedo che rispetto al disco precedente, dove erano presenti anche canzoni in inglese, hai scritto tutti i testi in italiano. Una scelta azzeccata che rende il lavoro molto più omogeneo. Chi ti ha consigliato di fare questa scelta?

«Ho avuto diversi "consiglieri" in questo senso! Ma sinceramente è una decisione che già si era fatta strada in me. Ad un tratto ho capito che era necessario fare una scelta, definire una mia identità e portare avanti un mio modo di fare musica e di scrivere le canzoni. Solo in questo modo avrei potuto essere credibile. Ho sempre dato una grande importanza ai testi delle canzoni, io sono cresciuto ascoltando i maestri come De André, Guccini o De Gregori, e mi sono reso conto che solo scrivendo in italiano avrei potuto dare profondità alle parole, raccontare in maniera più precisa, definita e anche poetica le mie storie, pur con le complicazioni che la lingua italiana comporta».

Tra i musicisti che hanno contribuito c'è anche Riccardo Maccabruni, già con i Mandolin' Brothers e Massimo Priviero…

«Ho conosciuto Riccardo proprio seguendo i concerti di Priviero. Ho potuto vedere in più occasioni quanto fosse bravo e versatile, oltre che un ragazzo simpaticissimo e molto disponibile. Ci siamo parlati, gli ho detto che mi sarebbe piaciuto averlo nel disco a suonare gli Hammond e alcune parti di fisarmonica: ha accettato subito con entusiasmo e ha fatto un lavoro egregio. Posso dire lo stesso di Martino Pellegrini, che ha suonato le parti di violino. La magia di "In una notte come questa" è tutta merito loro».

Quasi tutti i testi sono scritti parlando in prima persona. Questo significa che sono storie che nascono da tue esperienze personali?

«Nella maggior parte dei casi è proprio così, sono storie vissute davvero, in prima persona e solo in un secondo momento elaborate, trasformate. Il processo di scrittura, il lavoro sui testi ti porta inevitabilmente poi ad assumere un punto di vista più generale, a cercare di astrarre e di rendere le tue storie più "universali". Ma ho scritto tutte le canzoni guardando molto dentro me stesso, elaborando esperienze e cercando di esprimere i miei stati d'animo, i sentimenti, che non sapevo raccontare e trasmettere diversamente. Non è stata una scelta premeditata, è qualcosa che è venuto in maniera molto naturale».

"Quando il cielo è fragile" è l'unica canzone che non hai scritto tu…

«Esatto, è una canzone dei miei amici Miami & The Groovers, il cui titolo originale è "When the tears are falling down". Era presente nel loro primo disco, uscito nel 2005, e alcuni anni dopo un altro amico e ottimo musicista, Daniele Tenca, ha scritto il testo in italiano del brano. Nei loro concerti i Miami spesso mixano le due versioni e in diverse occasioni il brano è anche stato eseguito interamente in italiano. Mancava però un'incisione in studio "ufficiale" di questa versione e così, mentre stavo lavorando al disco e facendo un po' di scelte su quali brani includere o meno, Lorenzo Semprini mi ha scritto e mi ha chiesto ‹perché non la incidi tu?›. Sono stato indeciso per un po' di tempo, il pezzo mi piaceva molto ma avevo paura che suonasse un po' "estraneo" nel contesto del disco. Poi durante una serata che abbiamo fatto poche settimane prima di andare in studio a registrare l'abbiamo suonata dal vivo. Dalla reazione del pubblico ho capito che dovevo inciderla e metterla nel disco».

E poi hai abbandonato il bianco e nero scegliendo colori molto solari per la copertina. Il sole splende alto anche se sono "Storie della fine di un'estate"…

«Volevo che questo fosse assolutamente un album "a colori", nell'artwork del cd così come nelle immagini utilizzate nelle canzoni e nei suoni. Quando abbiamo iniziato la pre-produzione del disco ci siamo accorti che potevamo solo in una certa misura definire le parti dei singoli strumenti, perché la vera forza dei brani sarebbe venuta fuori solo suonandoli, cogliendo l'ispirazione di quel momento. E io credo che alla fine aver scelto questo tipo di approccio abbia portato grande vitalità e solarità alle canzoni».

Tra i ringraziamenti c'è anche Bruce Springsteen & The E Street Band. Se non ci fosse stato lui ti saresti avvicinato alla musica?

«Sono convinto di sì. La musica mi ha accompagnato praticamente da sempre e già quando avevo undici anni suonavo la chitarra e cantavo. Scoprire Bruce è stato come intraprendere un cammino, avendo accanto una guida, per raggiungere un posto in cui ciò che fai coincide davvero in pieno con ciò che sei. Ma quando hai scoperto la bellezza del viaggio il percorso che fai passa in secondo piano: puoi scegliere magari una strada diversa, ma non puoi fare a meno di percorrerla».


Titolo: Storie della fine di un'estate
Artista: Carlo Ozzella
Etichetta: Avakian Productions/IRD
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Carlo Ozzella, eccetto dove diversamente indicato)

01. Santi, perdenti ed eroi
02. Niente da perdere
03. Alla fine del giorno
04. Ti bacio per tutta la vita
05. La strada che conduce a te
06. Forti e liberi
07. In una notte come questa
08. Un vuoto da riempire
09. Niente è così sia
10. Quando il cielo è fragile  [Daniele Tenca, Lorenzo Semprini, Roberto Vezzelli]
11. Fino all'ultimo respiro
12. Viola