mercoledì 18 maggio 2016

I Del Sangre celebrano "Il ritorno dell'Indiano"





Sono tornati e il piglio, questa volta, è decisamente rock. I Del Sangre, dopo sei anni di assenza, sono nuovamente sulla scena con "Il ritorno dell'Indiano", disco di pregevole fattura che rilancia le ambizioni del duo toscano. Dopo due album pubblicati solo su internet, come "Vox Populi" (2008) che contiene antichi canti popolari riarrangiati e riadattati secondo uno stile a metà tra tradizione italiana e folk americano ed "El Rey" (2010) dalle atmosfere introspettive, il duo Luca Mirti e Marco "Schuster" Lastrucci ha deciso di puntare in alto e di voltare lo sguardo oltre oceano. Il disco è stato finalmente stampato in formato fisico e i Del Sangre hanno potuto contare su una produzione con i fiocchi, affidata al sempre fedele collaboratore Gianfilippo Boni (anche in veste di musicista al pianoforte e al Wurlitzer), una sicurezza nella cura del suono. I Del Sangre per questa nuova avventura discografica non hanno badato a spese e si sono avvalsi della collaborazione del batterista Fabrizio Morganti, già al fianco di Irene Grandi e Biagio Antonacci, del chitarrista Giuseppe Scarpato, già con Edoardo Bennato, di Claudio Giovagnoli al sax e di Paolo "Pee Wee" Durante all'organo Hammond. 
L'album, dalle marcate sonorità rock, è composto da dieci brani e una cover in cui si rintracciano influenze della produzione di Bruce Springsteen (l'intro chitarristico di "Alza le mani" rende omaggio a "Lucky Town" mentre "Successe domani" riprende ritmica e l'incedere di "Part man, part monkey) fino a quella dei Clash. Il tutto è stato rivisitato in chiave personale e con l'aggiunta di un pizzico di modernità. Una occhiata verso gli anni '70 i Del Sangre l'hanno data con la cover. Mirti e Lastrucci hanno omaggiato Ivan Della Mea, uno dei più importanti cantautori di protesta di quegli anni, ripescando la canzone "Sebastiano", qui presentata in una bella versione rock. Una scelta che ha regalato ulteriore spessore artistico a questa ottima prova discografica del duo. Il disco in generale ha un bel "tiro" e i testi, a metà tra l'autobiografico e l'impegno sociale, sono conditi da una ironia pungente nei confronti del potere e di uno Stato lontano dalle esigenze dei cittadini. 
Luca Mirti (voce e chitarra) e Marco Lastrucci (basso) presentano, nell'intervista che segue, il sesto album della loro carriera, iniziata nel 2002 con "Ad un passo dal cielo" e proseguita due anni dopo con "Terra di nessuno" che contiene il singolo "Radio aut", vincitore del Premio Ciampi.




Ci sono voluti sei lunghi anni per poter ascoltare un vostro nuovo disco. Cosa avete fatto dal 2010, anno dell'uscita di "El Rey", ad oggi? 

Luca Mirti: «Ci siamo presi il nostro tempo per riflettere su dove stavamo andando. Io ho continuato a suonare, ho una cover band messa su da svariati anni con amici. Ci divertiamo a riproporre dal vivo pezzi di buon rock anni '70 coi quali sono cresciuto e mi serve per allentare un po' la pressione che può portare un impegno come quello coi Del Sangre». 
Marco "Schuster" Lastrucci: «Dal 2010 al 2014, data di inizio della pre-produzione di "Il ritorno dell'Indiano", sono stati anni di pensieri e ricerca, non ricordavo dove avevo seppellito l'ascia di guerra, ho scavato molto... poi è venuta lei da me, un po' come l'uroboro che può sembrare immobile ma in realtà è in eterno movimento».

Il vostro è un ritorno in grande stile dal momento che avete deciso di stampare il disco in cd, cosa che non era successa nei due precedenti episodi, e vi siete affidati all'etichetta Latlantide. Lo considerate il disco del "dentro o fuori"? 

Luca Mirti: «In un certo modo sì perché ci abbiamo investito molto in termini di tempo e di denaro, quindi la riuscita positiva o meno di questo lavoro determinerà in modo pesante quello che saranno i nostri passi futuri».

Quanto avete investito in questo lavoro?

Luca Mirti: «Molto, appunto. Sia in termini emotivi, perché rimettersi in gioco dopo diversi anni e alla nostra età non è mai semplice, sia in termini di tempo sottratto alle famiglie e al lavoro, e anche dal punto di vista economici. Questo disco è stato realizzato solo in minima parte con l'ausilio del crowdfunding - che è una formula che paradossalmente si rivela vincente solo se hai un "nome" e un conseguente appeal - ragion per cui ci siamo indebitati con un finanziamento che pagheremo ancora per due anni».

Per realizzare questo lavoro vi siete affidati a musicisti di grande qualità artistica: su tutti Giuseppe Scarpato e Fabrizio Morganti. Come sono avvenuti questi e gli altri incontri?

Luca Mirti: «Collaboriamo da anni con Gianfilippo Boni che è sempre stato il coproduttore di tutti i nostri lavori e nel suo studio di registrazione abbiamo realizzato i nostri dischi, da "Terra Di Nessuno" del 2004 in poi. Gianfilippo, oltre ad essere un apprezzato fonico e cantautore, è  sempre stato il nostro trait d'union coi vari musicisti che gravitano nella scena musicale toscana, per cui Fabrizio Morganti è stata una sua geniale idea, oltretutto i trascorsi e il presente di un musicista come Morganti, parlano per lui e così è stato per altri musicisti che sono andati a comporre il puzzle. Un discorso a parte è quello di Giuseppe Scarpato del quale mi innamorai, artisticamente parlando, vedendo un video di Edoardo Bennato (Giuseppe è il suo chitarrista produttore da ormai venticinque anni) e fortuna vuole che, pur essendo lui napoletano, risieda a Firenze ormai da anni. È stato semplice contattarlo, proporgli il materiale e imbarcare anche lui in questa avventura. Scelta che si è rivelata vincente in termini di suono, ma questo era scontato data la portata del musicista».

Avete sempre differenziato molto le sonorità da un disco all'altro ma questa volta il taglio rock lo ritengo particolarmente indovinato…

Luca Mirti: «Sì. Quello che abbiamo sempre cercato di fare, nel nostro piccolo, è stato quello di non ripetersi e ogni nostro lavoro presenta colori differenti. Siamo passati dal folk più tradizionale al country, fino a un folk più oscuro e visionario ma non avevamo mai fatto il disco rock come volevamo, per tutta una serie di ragioni. Stavolta ce l'abbiamo fatta. Abbiamo messo in campo "l'artiglieria pesante" e questo disco è un forte richiamo a quelle tradizioni rock americane che hanno sempre contraddistinto i nostri ascolti».

Tra le canzoni del disco ce ne sono due dedicate ad altrettanti personaggi ribelli della storia italiana. La prima riguarda "Gaetano Bresci", anarchico che uccise re Umberto I e che in questa canzone confessa il proprio reato. Qual è il messaggio di questo brano?

Luca Mirti: «Fondamentalmente che nessuna istituzione, per quanto potente possa essere, può sentirsi al sicuro. Prima o poi passano tutti sotto la lente del giudizio, sia esso divino o popolare. La storia è fatta di corsi e ricorsi».

L'altra canzone in questione è "Argo Secondari", brano legato alla figura dell'anarchico che diede vita al movimento degli Arditi del Popolo, organizzazione paramilitare nata in opposizione allo squadrismo fascista. Cosa rappresenta per voi?

Luca Mirti: «Non è propriamente la storia di colui che dà il nome alla canzone. Argo Secondari è solo l'eminenza grigia, il punto finale dove vanno a confluire una gran parte di personaggi storici passati ed attuali che, a loro modo, hanno incarnato la figura del ribelle. Figure che passano da Che Guevara a Gesù Cristo fino anche a John Belushi e Billy Bragg per citarne alcuni. Diciamo che è un sogno nel quale l'anima della ribellione si desta e prende per mano un popolo marciando fino alla vittoria finale».

Non mancano le canzoni di denuncia come appunto "Sacra corona unita". Il rock militante trovate che sia ancora attuale?

Luca Mirti: «La parola militante presuppone lo schierarsi in maniera netta e decisa da una parte della barricata. Io ho sempre pensato al nostro come a un rock sì di protesta, ma anche di libertà. Cosa questa che certi steccati ideologici non ti permettono di avere, nella maniera più assoluta. Non so se sia o meno attuale, so solo che è l'unico modo attraverso il quale riesco a esprimere al meglio i miei pensieri su ciò che mi circonda che non è tutto merda ma neanche tutto rose e fiori. È la vita…».

Con "Gli occhi di Geronimo" tornate all'attualità. Alla disperazione di chi perde il lavoro e che decide di farsi giustizia da solo. Una storia alla "Johnny 99" di springsteeniana memoria… 

Luca Mirti: «Sì. Questa è una canzone portata in dote da "Johnny 99" e da "Billy Austin" (canzone di Steve Earle, ndr), ma anche da una situazione che è impossibile da non vedere, se proprio non si vuol mettere la testa sotto la sabbia. Quando i sogni e gli ideali di un uomo crollano sotto i colpi di una società che pensa solo a distruggere anziché aiutare chi è in difficoltà e si arriva alle conseguenze estreme, le strade sono due. O ci si punta una pistola alla testa, o si cambia prospettiva e la pistola la si gira verso un altro bersaglio. Sia ben chiaro che questa non è esaltazione dell'omicidio, ma una mera constatazione della parte più oscura della realtà che stiamo vivendo e che ci tengono nascosta».

Avete un occhio particolarmente critico anche verso la società occidentale governata da soldi, potere e lobbies. Il vostro messaggio è chiaro in "Successe domani". Stiamo correndo verso il precipizio o c'è ancora tempo per sterzare?

Luca Mirti: «Allo stato attuale vedo una implosione della società occidentale, derivante maggiormente dalla perdita dei propri valori e del non senso di appartenenza alle proprie radici storico culturali. Diciamo che siamo entrati in un lungo tunnel buio dove la luce in fondo non è altro che un treno che sta arrivando in contromano e, a meno di brusche sterzate, finiremo investiti».

Si colloca alla perfezione in questo album la cover che avete scelto di cantare. Si tratta di "Sebastiano" di Ivan Della Mea, una delle figure più importanti della canzone di protesta degli anni '70. Perché avete fatto questa scelta?

Luca Mirti: «Perché volenti o nolenti Ivan Della Mea è stata una figura di rilievo del cantautorato di protesta degli anni '70 e la nostra attenzione è sempre andata verso quella che io amo definire "musica di sostanza". Oltretutto conoscevamo Ivan e ci è sembrato doveroso rendergli omaggio con questa cover che a mio parere ci veste abbastanza bene. Mettici anche che se quei pochi, fra i quali noi, non riportassero all'attenzione certi lavori che hanno dato qualcosa di concreto alla musica italiana, queste canzoni sarebbero destinate all'oblio. Perché ai ragazzi d'oggi - se non in minima parte - non importa molto di capire da dove sono venuti, ma solo dove stanno andando. Ma se non hai delle radici solide, sei solo un gigante con le gambe d'argilla, ti addentri nel buio del bosco senza quella lanterna in mano che altro non è che il tuo passato, le tue origini. È importante».

Nel corso della vostra carriera avete avuto occasione di dividere il palco con Della Mea?

Luca Mirti: «Abbiamo calcato lo stesso palcoscenico nel 2004 a Livorno al Teatro La Gran Guardia in occasione del Premio Ciampi che vincemmo come gruppo emergente. Quella stessa sera si esibirono artisti di grosso calibro che ottennero il premio alla carriera fra i quali Ivan Della Mea, appunto, ma anche Nicola Arigliano, Ricky Gianco, Giovanni Lindo Ferretti con Ambrogio Sparagna, Ligabue. Fu una serata indimenticabile».

Secondo voi per scrivere testi credibili è necessario che l'autore viva queste esperienze sulla propria pelle?

Luca Mirti: «Sì e no. Se fosse così, De André non sarebbe mai esistito essendo venuto da famiglia borghese agiata. Diciamo che l'artista, e io non mi definisco tale, deve avere una certa sensibilità. Una spiccata ricettività verso ciò che lo circonda e quando le antenne captano qualcosa, una parte nascosta di lui che viene fuori in quel preciso istante, butta tutto su carta. È però auspicabile che l'artista debba - nei limiti del possibile - vivere non in controtendenza (e questo spesso accade...) con quanto va predicando perché comunque ha la responsabilità di parlare alla gente e deve essere sincero e credibile».

"Scarpe strette" e "L'Indiano" mi sembra siano canzoni più autobiografiche rispetto alle altre. Qual è il loro significato?

Luca Mirti: «A volte capita che scrivi e lo fai di getto. A cose fatte, ti rendi conto che la canzone sta parlando di te. È un processo tanto curioso quanto affascinante. "L'Indiano" è un brano che parla di un ritorno dopo anni di vicissitudini personali e finisce con l'essere la metafora degli ultimi anni del mio vissuto. Capita che a un certo punto della tua vita in cui non hai più vent'anni e ti affacci ai cinquanta, come nel mio caso, fai due conti e metti tutto sulla bilancia; credo sia fisiologico. E allora guardi a quello che è stato, a quello che poteva essere e a quello che è al netto delle sconfitte che ti hanno portato dall'essere incendiario fino a diventare pompiere e in tutto questo rivedi anche un po' di quella che è stata la vita di tuo padre che resta un faro indispensabile. Almeno per me».

Chi sono gli indiani ai giorni nostri?

Luca Mirti: «Chiunque tira avanti per sopravvivere con mille euro al mese. E lo fa combattendo una battaglia che sa già essere perduta in partenza».



Titolo: Il ritorno dell'Indiano
Gruppo: Del Sangre
Etichetta: Latlantide/Edel
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Luca Mirti eccetto dove diversamente indicato)

01. L'Indiano
02. Alza le mani
03. Successe domani
04. Gaetano Bresci
05. Fuori dal ghetto
06. Una chitarra per la rivoluzione
07. Sacra corona unita
08. Scarpe strette
09. Argo Secondari
10. Gli occhi di Geronimo
11. Sebastiano  [Ivan Della Mea]