venerdì 17 marzo 2017

"Malaccetto", questione privata di Ugo Cattabiani





Quando ho preso in mano per la prima volta "Malaccetto", il nuovo disco di Ugo Cattabiani, mi sono chiesto il significato di quel cuore rosso ferito e medicato con due semplici cerotti incrociati a formare una X. Un cuore ridotto in sofferenza dagli eventi della vita o un simbolo di centralità? Ho provato ascoltando il disco a capire quale di queste due visioni potesse essere quella giusta. La verità, come spesso accade, è proprio al centro, dove appunto è raffigurata la X. Se nella poetica del cantautore parmense si colgono i segni evidenti di una certa disillusione e sofferenza interiore è anche vero che la via d'uscita c'è e la si può trovare nel cuore, nella passione e nella vita stessa. Soprattutto in una sguardo interiore capace di portare ad una riconciliazione con se stessi e ad una ripartenza, magari artistica come appunto in questo caso. "Malaccetto" è un disco estremamente godibile, dal punto di vista prettamente musicale gli arrangiamenti si legano perfettamente ai testi. Siamo di fronte ad un album vivace la cui ricchezza trasmette emozione, al contrario di quello che dicono certi addetti ai lavori nei riguardi della produzione dei giovani cantautori, ma questa è un'altra storia.
Alla realizzazione del disco hanno collaborato Daniele Morelli (chitarre acustiche), Corrado Caruana (chitarra acustica), Oscar Abelli (batteria), Gabriele Fava (sax), Alessandro Mori (clarinetto), Antonio Menozzi (contrabbasso), Domenico Maisto (pianoforte), Andrea Trevisan (armonica), Maxx Rivara (synth), Federico Del Santo (chitarra elettrica), Giovanna Dazzi e Ross Volta (cori).
Con Ugo Cattabiani abbiamo parlato naturalmente del disco ma anche di molto altro, a cominciare dall'amicizia con Andrea G. Pinketts che ha collaborato in un episodio del disco.



Ugo, iniziamo subito dal titolo del tuo nuovo disco, "Malaccetto". Può essere letto in due modi, quale è più aderente al tuo sentire e perché?

«Malaccetto è lo status di chi riceve incornate in un angolo cieco dell'arena, dove lo sguardo del pubblico non può arrivare. Nessun boato, nessuna suspense: sei alle strette, incalzato da te stesso, e capisci di esserti ficcato in un brutto guaio. È, per dirla con Fenoglio, una questione privata. Il cantautore tende a chiudersi nel ghetto dell'autoreferenzialità, e anch'io a un certo punto ho temuto di essermi incastrato da solo. Quando vado nei locali e vedo una band che fa battere il piede alla gente, mi prende l'ansia di aver sbagliato tutto. Ci sono musicisti straordinari in giro, artisti che vivono sull'orlo dell'indigenza per fare quello che sanno fare molto meglio di me. Per un certo periodo ho rifiutato il mio ruolo – quello di chi se la scrive e se la canta – perché mi restituiva la sensazione di essere fuori posto, nel contesto sbagliato. Malaccetto, appunto. Il problema è che non riesco a fare a meno di produrre canzoni: è una questione di sopravvivenza che non ha nulla a che vedere con il sostentamento. Più che di capacità o talento, nel mio caso parlerei di tara. Per questo, nonostante il disagio che mi provoca, vado avanti. Odio questa mia propensione allo psicodramma ma l'accetto».

Passiamo alla copertina con quel cuore incerottato che colpisce subito l'osservatore. Penso che abbia un significato quel cuore ferito…

«Il cuore incerottato nasce come intuizione di Luca Soncini, artista visivo e pittore parmigiano, uno dei creativi che hanno lavorato alle grafiche del disco (gli altri sono Leonardo Barbarini e Lorenzo Castellan). L'idea di una ferita che non si rimargina, che può solo essere tamponata, mi ha conquistato all'istante. Penso che Soncini abbia sintetizzato e reso evidente il sentimento da cui nasce il testo di "Malaccetto". È una canzone in cui non dico "io" ma "tu": si rivolge a chiunque abbia vissuto un certo tipo di scorno. Un pittore che prova a vivere della propria arte sa di cosa parlo. Vi rimando al sito, pieno di fantastiche visioni, www.lucasoncini.com».

In una sorta di presentazione che tu fai all'album dici che queste canzoni hanno tamponato alla bell'e meglio l'emorragia. Cosa intendi?

«"Malaccetto" non è un concept; non ho scritto le canzoni con un disegno a priori; eppure la tracklist finisce per raccontare una storia. Ho apportato modifiche ai testi (alcuni riscritti di sana pianta) quando già le registrazioni erano in fase inoltrata, proprio perché mi si stava chiarendo una meta a cui avrei voluto portare tutte e dieci le tracce. Quella meta era ed è il superamento dell'angoscia di girare a vuoto, di sprecare tempo ed energie senza centrare mai l'obiettivo: quello di comunicare col pubblico. L'emorragia è una falla esistenziale che solo la scrittura di nuove canzoni può tentare di tamponare. Il finale con "Bob della Zena" lascia aperto uno spiraglio di riconciliazione con me stesso, come il girotondo felliniano che chiude "8½"».

Nelle dieci canzoni del disco, o meglio cicatrici come le definisci tu, getti lo sguardo verso un passato pieno di speranze che poteva essere ma che non è stato. Una vena di amarezza affiora nel presente. È così o i miei ascolti serali mi hanno tradito?

«Il fallimento è necessario preludio al senso. L'amarezza per "ciò che non è stato" l'ho superata scrivendo il disco, anche se ogni tanto riaffiora quando suono dal vivo. Forse, alla soglia dei quaranta, accuso un poco di disillusione sulle mie reali capacità di portare avanti questo mestiere. Continuo a farlo perché adoro le persone che lo praticano, persone che non troverei in nessun altro ambito lavorativo. Sai, mi ci vorrebbe un manager, non sono proprio capace di vendermi. I miei cd li regalerei tutti, se potessi. Sono al terzo disco da indipendente e mi spaventa il fatto che potrebbe non essere l'ultimo. Ogni release, stesso copione: dopo un timido arrembaggio che serve da pretesto per ubriacarmi con la ciurma, sfascio il timone e rinuncio alla direzione. Vale la pena, per un piccolo cabotaggio, pagare un prezzo così alto? La risposta è sì, perché non conosco altri modi per procurarmi cicatrici. Si pensa che l'arte possa consentire di superare un certo disagio, restituendo al limite un attestato di nobile sconfitta. Bah! Si cerca sempre di vincere o di convincersi che si è perso ingiustamente. Ciò non toglie nulla all'ambizione di migliorarmi, magari imparando una buona volta a cantare o – più ragionevolmente – a dedicarmi alla scrittura di canzoni per altri».

E poi sorprendi con questa inaspettata collaborazione con Andrea G. Pinketts nel brano "Mi piace il bar". Come è nata l'idea e cosa ci puoi raccontare del personaggio?

«Pinketts è una vera rockstar. Incarna un sublime menefreghismo verso l'ordine costituito, ma è anche un raffinato gentleman dal galateo impeccabile, un colto uomo di mondo. Il personaggio è tutt'uno con lo scrittore e, nelle meravigliose rare volte che lo frequento, con l'uomo. Il bar è come la nazionale di calcio, Facebook o Sanremo: siamo tutti allenatori, filosofi, esteti, filantropi, amatori, politologi, intenditori di vino e collezionisti di musica. Chi più parla, meno ne sa. Poi ci sono gli agenti sotto copertura: sai, quelli che devono bere per infiltrarsi tra gli alcolisti e smascherare il pesce grosso che traffica in stronzate. E quando dico stronzate intendo proprio stronzate: chi traffica in esistenze fasulle. Pinketts, agente sotto copertura, ha scritto un piccolo grande compendio capace di spazzare via ogni retorica sul bar, costruendo un romanzo sull'unico protagonista possibile in quel contesto: se stesso. Quel libro s'intitola "Mi piace il bar" ed è introdotto da una ballata omonima. Il mio lavoro si è limitato a scovare la colonna sonora sottesa a quei versi. Serviva swing, il rimando agli anni del proibizionismo e al piacere di bere di nascosto, sotto copertura».

Cosa rappresenta nel tuo immaginario il bar?

«La vita da bar è la vita che guardi e che ti guarda allo specchio oltre il bancone, e se sai leggere con onestà tra i fumi dell'alcol puoi trovarci eroismo e miseria – separati, abbinati o entrambi assenti – ed è inutile vantarti con gli altri avventori perché conta solo quello che pensa di te il barista: l'unico che, se ti dà credito, ti fa credito».

In "Odette" scrivi ‹Tutto ciò che non mi rende più forte mi uccide›. Qual è il significato di questo verso?

«Odette è un'eroina da romanzo ottocentesco e, come in ogni romanzo ottocentesco che si rispetti, l'eroina – certificata dalla nostra contemporaneità come droga letale – o si uccide o s'insinua mellifluamente nell'organismo di chi la ama, uccidendolo. Ci sono uomini che continuano a vivere nonostante siano stati uccisi, oserei dire sepolti, dalla propria eroina. Il mio intento era di scrivere una canzone su questi uomini inchiodati dalla bellezza e sensualità, incapaci di uscire dal tunnel della dipendenza amorosa, pur sapendo che non saranno mai contraccambiati. Amare è faticoso, perciò a una certa età si tirano i remi in barca: il fisico non regge. C'è un limite oltre il quale non si può andare, in amore, ed è forse meglio non arrivare a sperimentarlo. L'amore scema sia per troppa distanza che per troppa frequentazione. Come conservarlo? Bisognerebbe guardarsi «per la prima volta». Un bel grattacapo. Il più delle volte ci si accontenta di un ricordo struggente, che in ogni caso è preferibile allo smacco dell'amnesia o – peggio – all'indifferenza nei confronti della persona che abbiamo amato alla follia. La forza sta nella capacità di lasciarsi alle spalle un amore senza smarrirne la memoria; nel caso non ci si riesca, una parte di noi è destinata a morire».

‹Questo tempo ha il maleficio di inchiodarti a dicerie di laide deliranti profezie› è un verso di "Notte d'artificio" che trovo descriva efficacemente un aspetto della società virtuale in cui troppo spesso ci rifugiamo…

«Ti ringrazio per il complimento. Sì, è vero, nel chiacchiericcio virtuale il delirio di una mente disturbata trova altre menti disturbate pronte ad amplificarlo. "Notte d'artificio" l'ho scritta di getto la scorsa estate, dopo l'attentato sul lungomare di Nizza, senza però l'intento di commemorarne la strage bensì come soluzione personale a una profondissima tristezza che mi aveva colpito per tramite di quei fatti. Possibile che certe cose accadano a pochi chilometri di distanza senza che «le onde di uno stesso mare» si tingano di rosso? L'indignazione per un assassinio stupido e inutile mi ha riempito di rabbia ma anche di pietà per la bestia umana che è sempre pronta a dimostrare il suo vizio di fabbrica. La distorsione della realtà permea ogni ambito del quotidiano. Sui social non siamo che un'icona e un nickname, trollati da falsità e faziosità, noi stessi preda di violenza verbale, pedine di un gioco che fingiamo di capire, come i birilli abbattuti da un autista convinto di interpretare "il giusto". Quindi? Quindi il problema è che ci accendiamo come micce al minimo urto contro una provocazione, un insulto, un'insinuazione; siamo carichi di frustrazione, di stanchezza, di incapacità cognitiva, di confusione, di rumore. Non pratichiamo l'ironia o la pratichiamo sugli altri e mai su noi stessi, con poca intelligenza e pochissima empatia. Tanto vale rinunciare ad ogni presente e futura conquista. Spegniamoci, che è meglio, e accettiamo quel poco o nulla che siamo. "Notte d'artificio" nasce come monito a spogliarsi di ogni ardore nel segno dell'onestà intellettuale. L'unica certezza è il dubbio».

Con "Happy B (ti odio ma l'accetto)" punti il dito contro un certo tipo di spettatori, purtroppo sempre più presenti nei locali italiani…

«Prima di rispondere, lasciami prendere un profondo respiro. Mi è difficile mantenere la calma quando ripenso a certi individui che… oddio, sto cercando di rimuovere quei ricordi. Mi limiterò a dire che ci vuole talento, oltre che bravura, ad impedire che un idiota ti rovini il concerto; d'altronde, si sbaglia in buona fede a fidarsi del tal ingaggio nel tal posto. Bob Dylan, nel suo discorso di ringraziamento per il Nobel, ha dichiarato: «Come artista ho suonato per cinquantamila persone e ho suonato per cinquanta persone, e vi posso dire che è più difficile suonare davanti a cinquanta persone». A parte il fatto che quando suono davanti a cinquanta persone metto un cerchiolino sul calendario (sold out!), non posso che apprezzare questa dichiarazione. Nel mio piccolo ho imparato a dare il massimo in ogni situazione, gettando il cuore oltre l'ostacolo e confidando nell'ispirazione, perché si tratta di far digerire delle novità a gente quantomeno perplessa, spaesata di fronte a uno spettacolo in cui bisogna ascoltare. Sei lì con la chitarra a tracolla, magari c'è un addio al celibato nella sala accanto, tu sei collocato tra il biliardino e la porta del bagno. Devi mostrare prontezza di spirito, replicare con arguzia alle sghignazzate, usare cilindro e bacchetta e insomma essere tetragono ai colpi del destino. Purtroppo c'è la volta in cui inciampi in un brutto presentimento – un presentimento che si autoalimenta sommando una serie di fastidiosi dettagli – finché non arrivi tuo malgrado alla soglia dello scontro fisico. In almeno tre casi ho provato istinti omicidi (l'ultimo dei quali, fedelmente riportato, costituisce il testo di "Happy B"). Credo sia nel diritto del pubblico non apprezzare la tua esibizione e dimostrartelo attraverso un'ostentata indifferenza; ma non è tollerabile giocare al tirassegno col cantautore. In passato, a vent'anni, ero più bravo a incassare: mi dicevo che quella era la gavetta e che prima o poi mi sarei lasciato alle spalle certi contesti. Oggi che ho il doppio degli anni, sono ancora qui che ne parlo».

Nell'album troviamo anche una tua interpretazione di "Lontano lontano" di Luigi Tenco, ricordato recentemente per i 50 anni dalla sua morte. Cosa rappresenta oggi per voi cantautori Tenco? Credi che il suo messaggio sia ancora al passo con i tempi?

«Tenco è diventato un simbolo di intransigenza artistica ma anche di fragilità, di incomprensione. Non fa bene crogiolarsi nel sentimento di esclusione dal branco, si rischia di scambiare l'isolamento per autenticità; ma non si può negare il fatto che pochi artisti abbiano – come Tenco – le credenziali per essere definiti "veri", sganciati da ogni logica di riscontro mediatico. Credo che la parabola esistenziale e artistica di Luigi Tenco debba far riflettere su cosa la canzone d'autore può ancora essere: un centro di gravità che attrae o respinge a seconda della polarità di chi la pratica. Se non hai le carte in regola, se stai bluffando, verrai respinto. Oggi, più di ieri, è necessario non farsi abbagliare dal confezionamento della musica, dalla perfezione tecnica (peraltro facilmente raggiungibile coi computer sia in studio che dal vivo) e devo ammettere che, salvo rari casi, gli interpreti e i musicisti virtuosi finiscono per annoiarmi. La voce di Tenco, al contrario, ha qualcosa di misterioso che illumina inaspettatamente i testi molto semplici delle sue canzoni. Questa essenzialità è prerogativa di pochi. Ammiro gli artisti semplici ed essenziali, e a loro mi ispiro. Ciò detto, il gusto musicale in 50 anni si è evoluto parecchio e non mi considero un nostalgico del passato. Cerco di vivere la mia epoca anche dal punto di vista delle sonorità, delle nuove tendenze; ma alla fine, senza alcun pregiudizio, tante presunte novità mi lasciano indifferente».

Quando Tenco è morto tu non eri ancora nato, eppure…

«I cantautori del passato sono quelli che mi intrigano di più, forse perché agivano in un contesto di scontri generazionali e di fermento sociale, con meno risorse e più volontà rispetto ad oggi, e posso solo immaginare quanto l'uscita di un nuovo disco fosse percepita come un "messaggio" da soppesare con attenzione. Sento in certi pezzi dei '60 e '70 un coraggio e una convinzione che oggi ci sogniamo. Anche ingenuità, nel senso migliore del termine. Perché non mi stanco mai di ascoltare Piero Ciampi? Perché Ciampi scriveva i suoi versi in osteria, su tovaglie di carta, poi correva dal fido Gianni Marchetti in RCA per farseli musicare. La cosa straordinaria è che un professionista come Marchetti le musicava sul serio, quelle tovaglie, senza scacciare l'importuno Ciampi. Miracoli di una gestione illuminata targata Ennio Melis».

Cosa deve accadere perché un evento si traduca in uno stimolo per scrivere una canzone?

«Quando ti abitui a scrivere, sei sempre alla ricerca dello stimolo giusto. Imbratti risme di carta solo per capire che non era lo stimolo giusto. Lo stimolo giusto, però, è già quello che ti fa provare la frustrazione di non riuscirci: se non ci riesci, è perché non stai scavando abbastanza a fondo, non sei ancora sincero con te stesso. Ti accade un evento sconvolgente ma sei bloccato, le parole escono retoriche come le cronache che leggi sui quotidiani locali: significa che non hai ancora elaborato, non hai la giusta prospettiva dei fatti, vedi solo il lato personale e non l'essenza per così dire universale, quella che puoi rileggere a distanza di anni senza provare rammarico per la tua avventatezza».

Dici che prima o poi scriverai un libro delle cose che ti sono capitate suonando in giro per locali. È proprio così ricca di spunti la vita del cantautore?

«Il libro sulle mie infamie da musicista senza lode lo sto già scrivendo a mente, e si dipana tra ciò che avrei voluto aggiungere ai testi delle canzoni e le canzoni che non sono stato in grado di comporre. La cornice di questa narrazione cerebrale è la mia ventennale esperienza come concertista nei bar (si torna sempre lì) in cui mi sono scontrato con testardi avventori che non si facevano scrupoli a sbeffeggiarmi o, nel caso, a pagarmi un giro. Ho tirato mattina a controbattere a tipi strambi che mi scambiavano per il loro psicologo o il loro migliore amico, e tutto perché mi ero messo sotto i riflettori a cantare cose mie. Sai, a volte penso che per un cantautore il gran gioco della musica sia finalizzato a introdursi nella vita di estranei: stimolarli, stuzzicarli, portarli sul tuo terreno di confronto, dopodiché saranno loro a venirti a cercare mentre ti bevi una birra dopo il concerto. D'altronde è quello che faccio io quando assisto a una performance d'eccezione: dopo l'ultima nota, blocco l'artista e gli srotolo l'elenco delle sensazioni che mi ha fatto provare. In questo senso la vita del cantautore è inversamente proporzionale all'eredità materiale che lascerà: ricchissima».


Titolo: Malaccetto
Artista: Ugo Cattabiani
Etichetta: Rigoletto Records
Anno di pubblicazione: 2016

Tracce
(testi e musiche di Ugo Cattabiani eccetto dove diversamente indicato)

01. Malaccetto
02. Rosa dei venti
03. Canzone per un fratello
04. Mi piace il bar  [Andrea G. Pinketts; Ugo Cattabiani]
05. Odette
06. Lontano lontano  [Luigi Tenco]
07. Happy B (ti odio ma l'accetto)
08. Circe
09. Notte d'artificio
10. Bob della Zena


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